L’estate dopo la guerra me la sono goduta tutta, con la natura, con le cose belle, con il sole, il caldo, il lavoro dei campi, e la gioia di quelli che lavoravano i campi… Perché non è sempre tristezza: era fatica, sì, ma certi lavori fatti insieme erano pieni di allegria e di serenità.
Il mio pensiero di fondo però era quello di tornare a studiare.
Ormai la guerra era finita, si ricominciava…
Dentro di me si stava spegnendo il sogno di fare gli studi che io avrei tanto desiderato, cioè andare a Bologna.
A Bologna c’era un Istituto…
A Bologna c’era un Istituto particolare dove quelli che avevano attitudini potevano frequentare le scuole esterne, il liceo, le magistrali… fuori, con i vedenti.
Tu avresti voluto andare lì.
Io avrei voluto andare lì, invece a settembre è arrivata la lettera che mi diceva di ritornare a Padova. Lì a quel tempo, purtroppo, c’erano solo i corsi musicali: magistero di pianoforte, magistero d’organo, oppure di composizione.
Così sono ritornata a Padova, ma ho trovato un disastro completo. Il reparto femminile era occupato dalle suore, e non ce l’hanno dato, perché loro non sapevano dove andare. E noi ci siamo dovute adattare nel reparto maschile, dove tutto era ristretto.
Avevamo i pianoforti in giro per tutti i reparti, anche nei dormitori, dove capitava. Non c’era riscaldamento, le finestre erano senza vetri, con le carte. Durante la guerra era stato occupato dai militari che avevano combinato disastri…
Eravamo senza una direzione ben precisa: avevamo le suore ma mancava la Direttrice, mancava la Superiora. Eravamo lasciati un po’ a noi stessi.
C’erano dei ragazzi un po’ ribelli, un po’ troppo; dopo qualche anno di chiusura della scuola ognuno voleva dire la sua. Ne combinavano di tutti i colori, non si riusciva proprio a tenere la disciplina.
Però le scuole sono incominciate. Gli insegnanti erano molto bravi e seri, ed allora si doveva studiare. Io ero un po’ ribelle a quell’epoca, anzi direi: molto. Mi dicevano la “capo delle sedicenni ribelli”.
Non volevo studiare il pianoforte, dicevo che volevo fare qualcosa d’altro. E loro: «Ma tu hai attitudini anche per la musica». La musica mi piaceva, anche tanto, però non volevo insegnarla. E loro insistevano.
Ero già iscritta a sostenere alcuni esami quell’anno, anche se eravamo subito dopo la guerra; c’era l’esame di teoria e solfeggio e l’esame di cultura generale.
È stato un anno per certi versi piuttosto duro, anzi direi durissimo. Perché a sedici anni canta in cuore qualcosa a tutte le persone, le ragazzine normali… Trovarsi così, nella nostra situazione, in un ambiente rigido. Perché qualunque cosa che si faceva, si veniva contrariati. Ad esempio la prima mia amica che si è azzardata a mettere un paio di calze di nylon ne ha sentite di tutti i colori.
Una mia amica si era fatta la permanente e allora le suore, davanti a tutti, perché ci umiliavano tanto: «Ma a chi credi di piacere, a chi vuoi piacere?» «A me stessa, a me stessa!».
In seguito le cose sono cambiate anche lì, per fortuna, ma quegli anni era dura, era molto dura.
Dopo è arrivata la Direttrice, ed io essendo stata nominata la capo, figurati…
Sei andata a parlarci.
No, no, chi si azzardava! Allora noi si faceva ricreazione quando pioveva ed era brutto tempo, e succedeva spesso perché non erano mesi estivi, in una palestra. Una normale palestra, pestandoci spesso i piedi, sbattendoci addosso o prendendo colpi contro le pertiche che venivano lasciate in mezzo… E si girava, si girava sempre attorno, come delle trottole,…
Si formavano dei gruppetti, perché ciascuna cercava le amiche più simpatiche, e assieme si girava attorno ed io cantavo. Mi piaceva cantare, soprattutto quando passava vicino la Direttrice: mi facevano segno ed allora io mi mettevo a cantare e poi le altre mi venivano dietro. Cantavamo canzoni d’amore, che erano proibite.
Ci alzavamo alle sei e un quarto, alle sette c’era la messa; obbligatoria: per chi voleva e anche per chi non voleva. Questo è stato un danno per molte persone che poi, tornate in famiglia, ‘nel mondo’ come si diceva noi, hanno avuto un rifiuto per la religione.
Allora si doveva andare a messa, poi c’era una piccola colazione e quindi incominciava l’attività scolastica. La scuola per chi frequentava la scuola. Più di un’ora di lezione di pianoforte non si faceva però dopo bisognava studiare, a seconda dei corsi che si frequentavano, quattro-cinque o, se si faceva l’ottavo anno, anche sette-otto ore al giorno. Io in quegli anni dovevo studiare tre, quattro ore al giorno, proprio di pianoforte, che non volevo studiare.
Si, infatti ci avevi detto che non sarebbe stata la tua scelta.
No, non sarebbe stata la mia scelta. Erano anni molto duri per una adolescente che si trovava di punto in bianco davanti una realtà molto diversa da quella sognata. Perché, sì, non vedevo. Ma la limitazione della mancanza della vista lasciava intatta la persona, l’anima, il cuore, i sentimenti… tutto. Però ci veniva impartita una educazione che imponeva di soffocare tutti i sentimenti, di non esprimerli liberi, di non permetterci neppure di parlarne per poter risolvere un po’ qualche problema…
Ci condizionavano anche nei sentimenti più semplici, quelli che potevano essere i più puri, soprattutto in quell’età, e che se ascoltati, se indirizzati potevano aiutarci a crescere.
Senti, Urbana, tu sai come ci si regola oggi negli istituti, se ce ne sono ancora, di questo tipo?
Istituti per i ciechi oggi non ne esistono più. Per me è stato un guaio, invece i nostri dirigenti dell’Unione Italiana Ciechi hanno preferito così. Si poteva aiutare a migliorarli, perché già dopo dieci – quindici anni che io ero uscita erano tutta un’altra cosa gli Istituti!
Certamente si sta male quando si è lontani da casa, quando si è costretti a fare delle cose, però non assomigliavano per niente a quelli che abbiamo conosciuto noi.
Rimanere fra di noi ci arricchiva; intanto si imparava a volerci bene e poi a confrontarsi, che è una cosa molto, molto importante.
Perché adesso i ragazzini che frequentano le scuole pubbliche non hanno più le occasioni che avevamo noi. Io osservo i ragazzi ciechi di venti, venticinque, trent’anni, e li confronto con quelli che sono vissuti con me, che hanno studiato con me, e trovo una differenza enorme. Sono pieni di pretese, non riescono a capire la loro limitazione, quello che possono chiedere e quello che non possono pretendere. E questo è un gran guaio. E ce ne sono molti, e mi danno fastidio perché rovinano anche noi, perché dopo le persone dicono: ecco i ciechi sono così… e non è vero. Si generalizza e si va a rovinare un po’ una categoria di persone che, malgrado tutto, si danno tanto da fare per poter stare accanto a quelli che vedono, per poter dimostrare quello che valgono…
Certo, anche perché sappiamo benissimo che la perdita di uno dei sensi più importanti, come quello della vista, arricchisce gli altri e c’è la possibilità di essere, non dico alla pari dal punto di vista fisico, ma di poter fare tantissime cose.
Ma sono cose che ancora non si riescono a capire; per esempio: vergognarsi di dire ciechi, bisogna dire non vedenti…
È ridicolo! Bisognerebbe dimostrare quello che si vale, fare in modo che cadano i pregiudizi che ancora esistono. Perché anche se non c’è più il povero cieco all’angolo della via che domanda la carità, nella mente della gente il “povero cieco” è rimasto.
Devi saper sollevarti, devi saper mostrare! Fin da ragazzina mi dicevo: per poterci arrivare devo rendere il doppio, devo rendere il doppio per essere al pari degli altri.
Purtroppo oggi di istituti come quelli che ho frequentato io non ne esistono più. Soprattutto per le elementari dovrebbero esserci, quando si è piccoli, perché i genitori tendono a viziare i bambini, a fare loro tutto… Noi invece dovevamo arrangiarci da soli, anche da piccoli, era la regola.
Mi viene in mente una mia amica carissima. A sei anni, giocando con una bomba è rimasta cieca e mutilata: in una mano le è rimasto un dito, nell’altra tre. Quando è entrata in istituto noi più grandi si cercava di aiutarla ma lei dava di quei calci… perché voleva arrangiarsi. E si è arrangiata, sai! Si è arrangiava in tutto: metteva, ad esempio, un pezzo di pane sotto l’ascella, e con le due dita che le restavano lo rompeva e lo metteva nel caffelatte.
Ci colpiva tutti per questa sua determinazione; poteva anche lasciare che facessero gli altri… E invece no! Ha studiato, ha imparato a leggere, a scrivere… Da adulta si è sposata e ha avuto tre figli.
Tutto questo per la sua volontà, ma anche per il vantaggio di essere in un istituto dove non c’era il pietismo, l’affetto morboso che poteva rovinarci. E quindi si imparava a fare tante cose.
Quindi, nonostante la durezza o le difficoltà di questi istituti, non attrezzati in modo adeguato, tu dici che l’esperienza è stata nel complesso positiva.
Per me è stata positiva, e anche per tanti altri. Per altri no, perché dipende anche dal carattere.
Credo che potrebbe essere positivo oggi, con i dovuti miglioramenti. Ad esempio, io non potevo andare a casa il sabato e la domenica: adesso se ci fosse un Istituto qui in regione ogni sabato e domenica i ragazzi potrebbero rientrare in famiglia. Quelli che stanno vicino potrebbero andare a scuola al mattino e tornare a casa alla sera.
Ma il contatto fra quelli che non vedono per me è indispensabile.
Ecco, ora torno ancora a raccontare di quegli anni.
Il freddo! Ricordo che ogni venerdì tre avevo tre ore di lezione di fila in una stanzetta, a nord, freddissima. Quando mi alzavo non riuscivo neanche a stare in piedi da quanto gelata ero! Eppure dovevo imparare, ma era più il tempo che tenevo le mani sul collo per scaldarmi che per suonare.
Alle dodici e mezza c’era il pranzo: c’era chi tornava dalla lezione e chi invece dopo aver studiato e allora ci raccontavamo le nostre esperienze, come eravamo stati trattati, come avevamo fatto, se era bene, se era male e poi il pranzo, il pranzo…
I primi due anni sono stati difficili per il vitto; non ci è mai mancato, perché il pane ce l’hanno sempre dato, però il cibo era pessimo. Ad esempio per un anno abbiamo mangiato il riso disinfettato con il fenolo, che aveva un odore … Più di qualche volta si metteva in là il piatto, ed allora erano prediche a non finire, perché bisognava pensare a chi non aveva niente da mangiare.
Tutte queste storie sono passate e adesso mi fanno sorridere e quando trovo i miei amici ce le raccontiamo e si ride contenti, senza serbare rancore né per il destino, né per quelli che ci sono stati vicini e che a volte sono stati duri. A volte vengono ancora a trovarmi i miei maestri, i miei insegnanti, oggi più che ottantenni. E passiamo qualche ora raccontandoci le nostre storie: loro ne hanno passate molte più di me, perché sono venuti prima, e quindi la vita di istituto era durissima, durissima. Eppure si sorride contenti.
Abbiamo imparato qualcosa che ci ha aiutati ad accettare la vita e anche a renderla abbastanza piacevole, nonostante tutto.
Perché le nostre lotte più dure sono contro i pregiudizi. Ad esempio per tanti anni io non ho mai detto che ero diplomata in pianoforte…
Come mai?
Perché ero convinta che la gente non mi avrebbe creduto, soprattutto le persone più colte.
Perché pensavano che fosse impossibile, che raccontassi una fandonia.
E ho avuto una soddisfazione, proprio ultimamente. Quando mi sono diplomata il Ministero della Pubblica Istruzione non ci ha rilasciato il diploma autentico: quell’anno non l’aveva avuto nessuno, avevamo solo quello sostitutivo. Io ho passato gli anni successivi tra ospedali e mi sembrava assurdo far perdere tempo a quelli di casa mia per cercare il diploma. Ma recentemente i miei insegnanti di allora, conoscendo questo mio desiderio, sono riusciti, dopo un anno di pratiche a farmi avere il vero diploma e da un paio d’anni l’ho qui in mostra, nella mia camera.
Ma torniamo a come l’ho guadagnato quel diploma! Allora studiavo pianoforte controvoglia, perché non mi piaceva quello che avevano scelto per me.
Sono stati anni duretti intimamente, proprio nella mia personalità che si stava formando. Non dico di avere avuto ribellioni allora, no; se forse ho dato l’idea di averle avute, era solo per posa. Mi piaceva anche posare a quel punto!
Posare in che senso allora?
Mostrare quello che non era, farmi vedere sentimentale, e non lo ero proprio, contraria alla spiritualità, alla religione…
Forse eri solo una adolescente normale…
Sì, una adolescente normale. Però nell’istituto dove io vivevo non era normale, forse perchè io sola mostravo queste cose. Le altre se le tenevano dentro, era difficile che manifestassero i loro sentimenti: anche per paura, perché i castighi erano abbastanza gravi, si poteva arrivare fino alla sospensione o all’invio a casa.
E tu ne hai avuti di questi castighi?
No, ma minacce sì, minacce sì… Ma poi sapevo barcamenarmi!
Ogni mese veniva il direttore spirituale ed io, per fare un po’ dispetto alla direttrice, non ci andavo!
Loro osservavano tutto, anche chi frequentava la Comunione, e così in quel periodo soffrivo, non potrei dire di ribellione verso l’alto, assolutamente no, però mi sentivo molto sola, avevo bisogno di una guida che non c’era, che non ho mai avuto.
Avevo un ruolo di leader: tutte venivano da me, le amichette, le compagne e, qualunque problemino avessero, io dovevo in qualche maniera aiutarle.
È stata una fortuna, perché aiutando loro aiutavo anche me; perché quando dicevo qualche cosa a loro, lo dicevo prima di tutto a me stessa e quindi aiutavo anche me. È stato sempre così nella mia vita, fin da bambina, e ancora adesso vengono qui tante persone e si confidano, mi dicono cose che forse non direbbero neanche, non alla persona più cara, ma neppure al sacerdote stesso.
Devo chiamare lo Spirito Santo che mi aiuti per poter aiutare, e questo è sempre stato il mio compito. Forse mi sono anche salvata per quello, sì salvata. Uso una parola forte, perché è la verità: o l’accettavo e vivevo una vita abbastanza serena, oppure sarebbe stato un inferno.
Ecco, gli anni prima della mia vera grande malattia, che è arrivata a diciannove anni, sono trascorsi così, abbastanza sereni. C’erano diverse feste in istituto, c’era il gruppo interno dell’Azione Cattolica dedicato a Santa Cecilia, protettrice della musica. E si facevano diverse feste, il tesseramento l’otto dicembre e altre, le preparavamo da sole organizzando anche i canti in chiesa, dei quali ancora adesso ho molta nostalgia.
E sono arrivata al punto di avere l’accumulo di cariche! Mi dovevo occupare delle aspiranti, allora c’erano quelle, non l’A.C.R. come adesso, le beniamine, le più grandi… Durante le ricreazioni, quando certe bambine non sapevano cosa fare, me le prendevo, soprattutto quando arrivava la primavera, e si facevano diversi giochetti insieme, anche di intelligenza, e passavamo ore così. E ancora adesso quelle bambine mi cercano, vengono a trovarmi, e portano di me un ricordo che mi fa immensamente piacere. C’è una differenza quasi di vent’anni tra me e loro, però continuano a cercarmi, sempre, in diverse… e questo mi fa tanto, tanto piacere.
In seguito ho incominciato a studiare con amore. Mi dicevo: «È inutile lamentarsi, devo fare qualcosa!» Mi piaceva fare contento papà, che quando veniva a trovarmi andava a vedere se ero sull’album d’onore: era in portineria e vi figuravano i nomi di chi riusciva meglio, sia in profitto e sia in condotta.
E Urbana c’era sempre!
Sì, in quel periodo c’ero! Facevo contento papà, le suore andavano a complimentarsi con lui che rispondeva in modo un po’ burbero ma ne godeva tanto!
Ho un ricordo affettuoso di quegli anni, delle mie compagne più care che ho dentro di me, delle suore che ancora vengono a trovarmi e mi vogliono bene. Ci vogliamo bene.
Perché nonostante tutto, anche se allora non comprendevamo noi e non capivano niente loro, è rimasto l’affetto, bello, che ci aiuta ancora.
Poi, però arrivavano anche le vacanze e allora, ecco, la mia sofferenza.
Ragazzina adolescente, con una limitazione così grande, e con la coscienza, quasi, di non dover disturbare, di sentimi sola… Ed ero sola in quel periodo, pur avendo un affetto immenso dai familiari, quando tornavo a casa. Come ho detto vivevo in una casa poverissima, una casa che non potrebbe neppure chiamarsi casa. Immaginarsi i miei disagi: venivo da un istituto dove pure mancavano tante cose ma quando tornavo in famiglia era un disastro.
Era una casetta in mezzo ai campi, per fortuna, ma mancava tutto. A volte desideravo che neanche arrivassero le vacanze: c’era una contraddizione dentro di me, una sofferenza, perché sembrava che non amassi la famiglia che per me era tutto, però ci tenevo anche ad altre cose.
E poi, interiormente, la solitudine, la solitudine…. Io non avevo sorelle, con la mamma avevo pudore a raccontare certe cose, non mi sono mai aperta con lei; non perché lei non comprendesse, tutt’altro, ma così, per non darle altri dispiaceri.
Tanti mi chiedono: ma tu non avevi delle amiche? Non le trovavi quando tornavi? Sì le avrei avute, e forse anche tante, però a quindici – sedici anni, quando si soffre di una minorazione che ci toglie di tante cose, io evitavo di andare insieme a loro, per non disturbarle, per non metterle in imbarazzo, perché a quell’età lì si fanno tanti sogni e io non volevo interrompere i loro sogni… Forse non volevo neanche soffrire di più di quello che dovevo soffrire, ma anche per non turbarle, per non disturbarle… E quindi ero sola.
Forse questo cercare di restare sola con la tua difficoltà ti ha data anche la forza di diventare autonoma, di non dipendere sempre dagli altri.
Forse, però ha contribuito anche il pregiudizio che mi circondava.
In un paese piccolo io che non vedevo ero la poverina, la poveretta, la poveraccia… Ne ho sentite di tutti i colori, di tutte le qualità!…. E allora ci si rifugia lontano da tutti.
Ma voglio anche dire che questa solitudine non l’ho sofferta in modo assoluto perché riempivo ugualmente tutta la mia giornata: in quei periodi ho letto tanto, tanto!
Noi abbiamo una Biblioteca Nazionale che si trova a Monza e che distribuisce in tutta Italia libri in Braille per chi vuole leggere: libri di tutti i tipi, romanzi, libri di scuola e altro. Io, d’accordo con altre compagne, oltre al mio nome ne avevo dato altri due ed avevo quindi tre abbonamenti.
I libri arrivavano dentro a delle cassette, anzi delle casse piuttosto grandi perché i libri in Braille per non vedenti occupano molto spazio. Arrivavano alla posta e non c’erano difficoltà: avevo i fratelli giovani, ancora ragazzini, che andavano volentieri a prendermi queste cassette e io leggevo, leggevo continuamente, sempre.
Poi le prime radio: avevo un fratello che ci sapeva fare e che di una radio di prima della guerra ne aveva ricavate due.
E io l’ascoltavo volentieri. Qualche volta si fermava e andavo a cercare il guasto; ho preso più di qualche scossa elettrica! Una volta, ricordo ancora, stavo ascoltando, pensa un po’, il premio di formula uno…
Ti interessavi a tutto!
Sì a tutto, a tutto…. E sul più bello la radio non parlava più. E allora cerca cerca e finalmente, con un stuzzicadenti, ho unito due piccoli fili dell’altoparlante e l’ho fatta partire ancora!
La radio mi faceva molta compagnia: ero in compagnia dei miei personaggi preferiti, delle molte compagnie teatrali, a quel tempo molto brave, di radio Trieste, Torino, Firenze… Ogni stazione radiofonica aveva la sua compagnia.
Così passavo le vacanze: tranne i disagi di cui ho parlato prima, per il resto… andava.
Tranne i pomeriggi: la mamma, che doveva pensare alla nostra cena, ogni giorno usciva e non mi diceva dove andava. Io mi trovavo completamente sola, ma proprio sola, fisicamente. Quando me ne accorgevo uscivo di casa, mi sedevo sotto un pioppo lì vicino, continuavo a leggere ma presto arrivava l’ansia. Non angoscia, ma ansia sì, perché ogni piccolo rumore mi spaventava. E allora ho imparato a conoscere i vari rumori della natura: quando saltava il ramarro, quando scappava la lucertola, quando tra le fronde si muoveva l’uccello, quando un gatto saliva sopra il pianoforte e allora mi metteva paura perché pensavo che in casa ci fosse qualcuno.
In una frazione di secondo dovevo percepire e anche capire che cos’era per diminuire la mia ansietà. E ho imparato a riconoscere i rumori, le voci della natura…
La natura è stata la mia salvezza, la mia gioia, la mia libertà. Una cosa meravigliosa!
Ma non riuscivi a superare la solitudine e la paura dei pregiudizi…
Si perché… come fai a convincere una ragazza di 15-16 anni che anche solo salutare un ragazzo è male? Che tu non puoi permetterti di fare neanche il più piccolo sogno?
Capisco aver spiegato quali difficoltà si potevano incontrare con certe relazioni… Invece no! Niente del tutto, stop! Non era possibile, non bisognava, era peccato, basta!
Quindi anche da parte tua cercavi di non correre rischi e per non sbagliare era meglio stare soli..
Si, certo! Però il cuore batteva, e la mente sognava… Una voce simpatica, una conversazione piacevole… cosa sarà mai, però bisognava evitare, stare lontani… Perché: «Ma scherzi?. Se tu parli con quello dopo cosa potranno dire di te?» Tutte cose che una ragazzina non può capire, può solo soffrirne e sbagliare, e basta.
E quindi… sì, sono rimasta sola anche per questo.
Per certi aspetti questa era una situazione comune a tutte le ragazze a quell’epoca, ma a te, probabilmente, era stata tolta anche la possibilità di confidarti con amiche della tua età.
Sì, ma ero anch’io che la rifiutavo: perché avevo pudore, mi vergognavo, non volevo che pensassero chissà cosa: «Ma guarda quella lì, cosa crede, cosa pensa.. ». Anche per evitare tutto questo rimanevo sola, soprattutto durante le feste.
D’estate ci sono molte sagre nei nostri paesi e io rimanevo in mezzo ai campi, il paese non è molto lontano, e ascoltavo la musica della giostra, i canti di festa e mi sentivo molto leopardiana…
Non partecipavo mai alle feste, non mi sono piaciute, forse sapevo che comunque non mi sarei divertita… però, sai, mi piaceva anche atteggiarmi un pochino da vittima in certi momenti.
Così impersonavi qualcuno dei personaggi della letteratura…
Pensavo spesso al Leopardi, al passero solitario, ai Canti di Saffo, a tante altre poesie che secondo me si addicevano a quei momenti di solitudine.
E ne scrivevi, anche, di poesie?
Sì, ne scrivevo, ma le ho distrutte tutte, sia quelle dell’adolescenza sia quelle della giovinezza. Negli anni successivi mi sono ammalata parecchio e allora per molto tempo non ho più pensato alla poesia.
Anche allora scrivere era per me come una liberazione, come è stato in seguito; scrivere è far uscire da te qualcosa, che se dopo gli altri lo leggono o no, non è importante.
Papà mi aveva preso un pianoforte a noleggio, perché non si può stare troppo tempo senza esercitarsi quando si studia uno strumento.
Avevo quindi la possibilità di suonare il pianoforte e soprattutto alla sera, in mezzo al silenzio dei campi, con il mio usignolo e le altre voci della natura, il suono del mio pianoforte che si perdeva… mi riempiva di dolcezza e nostalgia… Una nostalgia che io chiamavo sete d’infinito, già fin d’allora.
Senti Urbana, una curiosità. Ci avevi detto tempo fa che lo studio del pianoforte ti era stato imposto contro la tua volontà, ma mi sembra di capire che a questo punto l’amore per la musica ti avesse ormai riconciliato con questo studio.
Non tanto, però non c’era altra scelta e mi sono adattata. Più avanti volevano farmi studiare anche l’organo ma quello non è stato possibile perché le mie condizioni fisiche non mi consentivano neppure di stare seduta sulla panca.
Erano gli anni che precedevano di poco la mia malattia e quelli erano i primi segnali.
Malgrado tutto ho di quegli anni una nostalgia struggente: nostalgia dell’Istituto… ricordo ancora i tanti pianoforti che suonavano assieme, uno qua uno là, e i miei compagni e le mie compagne che studiavano ciascuno la sua lezione. Ricordo le sere dei mesi di maggio… insomma, tanti tanti ricordi.
Forse chi mi sente ed è stato in istituto con me, potrà dire: «Ma questa è una povera scema!». E invece no.
Perché a me è rimasta dentro una dolcezza immensa della prima infanzia e di quegli anni.. La coscienza di aver perso qualcosa di molto importante, ma di poter dire sempre: io ho vissuto, non sono rimasta lì come un parassita e sono contenta di questo e dei ricordi che conservo.
Noi usiamo dire che il tempo passa, invece siamo noi che passiamo…
Gli studi procedevano abbastanza bene; nei primi anni subito dopo la guerra, ho fatto gli esami di teoria e solfeggio, di cultura generale e di quinto anno.
Alle compagne ero abbastanza affezionata, con qualcuna anche molto, come succede nella comunità. Le nostre istitutrici erano suore molto buone e gentili ma forse non preparate ad aiutarci ad entrare nella vita, e quindi più di qualche volta c’erano delle incomprensioni e dovevamo mandar giù dell’amaro.
Ma avevamo anche dei piacevoli passatempi che ricordo ancora oggi con nostalgia, soprattutto dopo Natale. Nelle domeniche di Carnevale andavamo ad assistere a delle commedie che ci venivano offerte da altri collegi o orfanotrofi.
Per noi era una grande festa e ne nascevano lunghe discussioni: qual era l’attore più bravo, il personaggio più interessante. Passavano ore in questa maniera, divertendoci molto, anche quando le commedie non erano molto allegre e si faceva qualche lacrima ascoltandole.
Erano belle anche per quello…
Sì, erano proprio belle!
Ricordo con gioia e con nostalgia dolcissima queste domeniche, magari piene di freddo, passate nei vari collegi dove ci invitavano.
Anche noi, appena finita la guerra, avevamo incominciato a preparare delle recite che però ci impegnavano troppo e dovevamo studiare. Ricordo la prima che abbiamo fatto, che ha avuto successo, con molta gente, forse anche per curiosità. Abbiamo presentato la traduzione di un dramma di Montherlant, pensa un po’!
E anche tu hai recitato.
Sì, anch’io! E ho avuto anche degli applausi a scena aperta quando ad un certo momento, io non violenta, dovevo alzare una pistola, e dire delle parole che adesso non ricordo neanche più.
Sai, sono cose che da giovani, prendono molto, soprattutto nelle comunità. Andavamo in questi orfanotrofi dove la vita non era certo migliore della nostra; noi avevamo perso la vista ma anche a loro era stato tolto molto, forse di più moralmente, e quindi ci sentivamo unite a loro.
Poi facevamo il saggio annuale alla fine dell’anno: ci preparavamo molto, con brani strumentali e coro. Quello rappresentava qualcosa di molto diverso perché andavamo a fare le prove assieme ai ragazzi, figurati un po’!
Il giorno del saggio c’era agitazione e un po’ di nervosismo.
Era un momento importante, con molta gente. Era una grande soddisfazione essere tutti uniti per fare qualcosa di bello e offrirlo ai nostri parenti, e a tutta la città.
Ecco di quel periodo ho soprattutto ricordi di questo tipo; gli altri sono sbiaditi, se non scomparsi, e sono rimasti solo i più belli.
Perché, nonostante tutto, la mia vita d’Istituto era bella, mi piaceva, mi stavo innamorando anche dello studio… però il diavolo ci ha messo lo zampino!
Cosa è successo?
Adesso comincia la seconda parte, diciamo così, della mia storia.
Avevo accettato la cecità, superato i contatti con i vari istituti.
Ero arrivata ai 18 anni, con i miei desideri, i miei sogni, con le mie soddisfazioni. Ero anche contenta, però incominciavo a stare male.
Veramente già da bambina mi ammalavo spesso, ma nessuno aveva capito cosa potessi avere.
A casa tacevo, per non impensierire inutilmente i miei, e in istituto avevo dei problemi a farmi capire. Ho già detto che le suore non erano molto preparate: erano buone, gentili, care… le ricordo anche loro con affetto. Però… io ad esempio non mi sentivo bene e qualche domenica chiedevo di non fare la passeggiata.
Per me la passeggiata era un momento umiliante, oltre che faticoso. Si camminava a tre a tre e la gente commentava: «Poverini, poveracci, poveretti… E quelle suore, quanto hanno da fare…» e perfino: «Come fanno a dar loro da mangiare?» come se chi vede guardasse la propria bocca quando mangia! Io stavo abbastanza male e allora chiedevo di non andare in passeggiata. Ma loro non volevano, dicevano che ero troppo sentimentale…
Alla sera ero stanca, la ricreazione era poca cosa. Avevamo freddo e allora camminavamo come tante trottoline per questa palestra, sempre intorno, sempre intorno, per scaldarci un po’ i piedi.
Tante sere chiedevo di andare a letto prima ma mi facevano mille problemi così ho deciso di non chiedere più niente. Però stavo male.