Ho raccontato i miei primi anni, di come sono arrivata alla perdita della vista e della mia Prima Comunione con il sole d’ottobre pieno di dolcezza.
Con questi ricordi intensamente belli si chiude il breve preludio della mia sinfonia.
Parlo un po’ con il linguaggio della musica: inizia la mia sinfonia vera e propria e inizia un tempo che non so e che non potrei forse neanche descrivere, perché ancora adesso ritornando indietro, riandando ai quei tempi, mi rivedo e mi ritrovo avvolta da un’intensa nebbia, da tanto buio.
Ed ero sola, pur essendo bambina e neppure conoscendo e sapendo che cosa fosse la solitudine.
E allora inizio questo racconto della mia prima fanciullezza.
Quell’anno il governo fascista aveva ordinato ai podestà, che sarebbero i sindaci di oggi, di denunciare tutti i bambini handicappati del comune perché, a seconda del tipo di handicap, si potesse poi trovare qualche sistemazione.
Anche nel mio comune c’era un bambino handicappato, ed ero io.
Le persone incaricate dell’indagine hanno preso contatto con i miei, in modo molto delicato, e sono riuscite a convincerli che dovevo entrare in una scuola speciale.
Arriviamo a ottobre.
I rapporti con il padrone erano intanto molto deteriorati… per motivi che chi ha visto il film Novecento può capire benissimo.
E quindi noi a novembre, l’11 novembre, San Martino, dovevamo cercare un altro padrone e fare il famoso “San Martino”.
Io ero lì, non potevo né muovermi, né correre, né andare per i miei campi tanto amati; così limitata… mi sentivo un oggetto, non capivo, non mi rendevo conto.
Ed ecco che arriva il giorno, si mettono le poche cose sul carro e si parte. Papà aveva trovato un altro padrone in un paese vicino, a Lovertino, in una zona chiamata Murcia.
C’erano due tre case, la casa padronale con due signori senza figli. Siamo arrivati noi: sei figli, papà e mamma.
Papà doveva guardare gli animali, assieme ai due fratelli maggiori, che erano giovanissimi anche loro. Giovani, pieni di vita, di voglia di vivere e di tante altre cose. Anche di dormire! Pensa che il più grande dormiva in stalla e una notte un animale si è sciolto dalla catena e gli ha rovesciato il letto. Lui dormiva così di gusto che è rimasto sotto e non se ne è neppure accorto!
Era un fratello dolcissimo. Mi prendeva in braccio e mi diceva: «Dai Urbana, dai! Vedrai che la scienza farà dei progressi, allora io ti darò uno dei miei occhi; io ci vedrò lo stesso e così ci vedrai anche tu».
Diceva così, queste cose che mi sono rimaste proprio dentro.
Prendeva in braccio la mamma e diceva: «Guarda che mamma piccolina!». Giocava con lei come se fosse una bambola.
L’ho tanto in mente. A lui piaceva moltissimo la musica: a volte si metteva sotto le finestre della casa padronale ad ascoltare un po’ la loro radio e loro gli gettavano addosso di tutto perché non volevano.
Ma questo è successo nel periodo che io ero assente da casa perché poco dopo il trasloco è arrivata la lettera della Provincia. Dovevo andare in istituto e, come tutti gli assistiti della provincia di Vicenza, ero destinata ad una specie di ricovero a Piacenza.
Partii. Papà mi accompagnò e alla stazione di Milano, pensa un po’ che ricordi, mi comprò una gassosa. Abbiamo tenuto la boccettina vuota, come ricordo, per anni e anni.
Così sei arrivata a Piacenza, in un posto nuovo e sconosciuto. Una scuola specializzata, immagino, per bambini ciechi: è così?
Sì, ma non solo. Essendo un’Opera Pia comprendeva anche un’ala per sordomuti e una per l’infanzia abbandonata. Di bambini piccoli, ciechi, eravamo in pochi; era piuttosto un ricovero.
Passando dalla mia minuscola casa a questo enorme palazzone mi sembrava proprio di perdermi.
Piacenza mi è rimasta nella memoria come una città molto triste, legata al ricordo di tanti funerali. Il nostro istituto era un’Opera Pia e dovevamo andare ai funerali dei benefattori.
Ricordo i cavalli del carro funebre che scalpitavano, il loro intenso odore che dava un po’ fastidio; poi l’aria un po’ strana, i fiori vizzi…
E le chiese con quella musica… Perché allora si cantava in latino, Dies Irae, Libera me Domine, e ti entrava dentro quella musica così triste, che parlava proprio di morte.
Ed io, pur essendo bambina, ero costretta a pensare molto alla morte perchè in quel periodo sono incominciati i miei guai, gli altri miei guai fisici, dovuti a una malattia piuttosto rara, non conosciuta e quindi difficile da diagnosticare. Tanto più in quell’ambiente dove affetto non ce n’era tanto; così si sono stancati subito di cercare, e forse non ne avevano neanche le possibilità.
Avevo spesso febbre alta e allora stavo a letto in questi stanzoni immensi dove non vedevo mai nessuno.
E quindi la mia fantasia volava… Avevo paura, così mi aggrappavo a tutti i miei ricordi più belli, mi costruivo dentro delle fantasticherie che sono state la mia salvezza.
Ma nonostante tutto in quell’anno di scuola a Piacenza ho imparato a leggere e a scrivere in Braille; ero dotata di un tatto particolare per cui leggevo subito molto in fretta.
Il ricordo più bello di quel periodo è stato quando, per il mio compleanno, i miei mi hanno spedito in dono un pettinino con dei fiorellini colorati che io continuavo a toccare e ritoccare….
Una volta ho toccato la cuffia di una suora perché mi era venuta la voglia di sapere come erano fatte queste cuffie di cui avevo tanto sentito parlare. Me le avevano descritte bianche, con tante piegoline… ed ero curiosa. Ho fatto otto giorni in castigo perché non si poteva.
In che cosa consisteva questo castigo?
Restare più soli di come già eri: niente ricreazione con gli altri, niente frutta o dolce se per caso ce n’era.. Ma soprattutto: soli.
L’esperienza all’istituto di Piacenza è stata un po’ traumatica, direi.
È stata traumatica la sensazione di nebbia, di buio, di solitudine… Ancora oggi di quella scuola ho un ricordo, non dico doloroso, ma tristissimo: l’ambiente, i funerali…
Però ero una bambina che veniva da un ambiente poverissimo, che non conosceva giocattoli, dolci, niente del genere… Ed ecco la mia prima sensazione gioiosa: la festa di Santa Lucia, quella notte così misteriosa, i cartocci pieni di dolci… A Piacenza danno i doni ai bambini il giorno di Santa Lucia, come a Verona, come in altri paesi qua nei dintorni. Ho avuto così il primo giocattolo: una bambolina con il suo lettino. Ricordo la gioia nel toccarla, nel riporla nel lettino.
Non era proprio un regalo: i giocattoli si dovevano lasciare all’istituto quando si tornava a casa. E non mi sembra neppure di averci giocato tanto con questa bambolina, dopo il giorno di Santa Lucia.
Ricordo molto meglio quelle che mi faceva mamma, un po’ rozze, fatte in fretta perché non aveva tanto tempo… Con quelle sì ho giocato tanto, ho colloquiato tanto; mi mettevo seduta con loro nell’orto, in mezzo alle piante, e parlavo, parlavo…
Ma la bambolina di Piacenza era molto diversa.
Poi dell’Istituto di Piacenza ricordo il caseggiato. L’ala riservata a noi ciechi era adiacente a quella dei sordomuti; passavamo tutti per una scala comune. I ragazzi sordomuti, più grandi di noi, ci vedevano impaurite e caute nello scendere e a volte si avvicinavano silenziosamente e ci spaventavano con le loro voci gutturali. Quello è un ricordo che mi è rimasto impresso. Io non ho niente contro i sordomuti, tutt’altro: ho stima e affetto per loro che hanno una limitazione sensoriale al pari di me, ma ad una bambina queste cose restano in mente e suscitano tante fantasie, sempre spiacevoli.
E poi il gridare dell’infanzia abbandonata: c’era sempre un fracasso così grande, un rumore così intenso che io l’ho ritrovato un po’ più tardi in un ospedale che confinava con un reparto di ammalati della mente. Mi torna sempre in mente il gridare di quei bambini e il gridare di quelle persone adulte, sempre.
Ma è arrivata anche la fine dell’anno scolastico e allora, finalmente, ci hanno rispediti a casa. I miei abitavano in un nuovo paese, a Lovertino, perché nel frattempo avevano dovuto fare di nuovo San Martino.
A Vicenza è venuto papà a prendermi. Era sera tardi quando sono arrivata nel nuovo paese; poi c’era anche un bel po’ di strada da fare a piedi lungo il canale Bisatto.
Poco lontano da casa mi aspettava la mamma con il bambino piccolo, il fratellino, e piangeva perché lei non riusciva a rassegnarsi che io avessi perso la vista. Piangeva sempre e andava da un prete all’altro per trovare conforto.
Mi viene incontro, con questo pianto disperato, e io bambina: «Ma perché piangi, ma perché piangi, se tu sapessi quante belle cose ho imparato». E allora calma, ma tutta orgogliosa, ho cominciato a leggere con le dita, a dimostrare che ci sapevo fare. Forse da lì incomincia un po’ la mia ripresa.
La mamma non riusciva a consolarsi e avrebbe voluto, forse anche per l’educazione avuta, approfittare un po’ della pietà, diciamo. Invece papà no; papà, molto intelligente, ha incominciato da allora ad approfittare di ogni mio gesto positivo per valorizzarmi ed insegnare ai fratelli più piccoli, o ai compagni o alle compagne, che ero come gli altri, che potevo essere come gli altri, In questo modo papà mi ha aiutata moltissimo e gliene sono infinitamente grata.
Questi sono i ricordi che non ho saputo e che non ho voluto dimenticare, perché anche questi servono. Servono per farci capire tante cose, per entrare nel mondo di tante sofferenze.
Ricordo l’istituto di Piacenza con pena ma anche con gratitudine, perché lì ho imparato a leggere e a scrivere il Braille.