Parlavi delle prime avvisaglie di questa nuova malattia, presa all’inizio come il capriccio di una ragazza sentimentale che preferiva stare sola.
Sì, ma c’era un po’ di verità anche in questo.
Io sarei abbastanza equilibrata, ma in quel periodo proprio cambiavo umore improvvisamente, ero diventata piuttosto lunatica.
Avevo sempre un po’ di febbre e avevo dei dolori alla schiena che mi facevano soffrire molto e quindi facevo fatica a camminare. Rimanevo appoggiata tutta da un lato e mi risultava difficile anche star seduta al pianoforte perché bisogna stare dritti sullo sgabello, sul tamburello, come lo chiamavamo noi.
Sono tornata a casa per le vacanze di Natale del ’48 e ho cominciato a dire ai miei che non stavo tanto bene. Loro non sapevano cosa fare; mi hanno portato anche da un medico, ma anche lui: «Cosa sarà, cosa non sarà, dall’aspetto sembra… – avevo anche del mal di testa – sembra un po’ di anemia» e mi ha dato dei ricostituenti.
Quell’anno ho voluto tornare all’istituto prima che finissero le vacanze, probabilmente anche per non patire il gran freddo di casa, tra la meraviglia delle suore e in seguito delle compagne.
Erano i primi di gennaio: facevo una fatica enorme a camminare ma non volevo ammettere di star male (questi sì erano capricci) ma dopo circa quindici giorni non ce l’ho fatta più e ho detto che mi sentivo male. Mi ha visitata il medico che veniva ogni tanto in Istituto e mi ha consigliato una visita in ospedale.
Senza avvisare a casa, verso la fine di gennaio sono andata all’ospedale e ho cominciato a passare da un reparto all’altro; c’era chi diceva una cosa, chi l’altra e io allora non capivo proprio niente. Però vedevo le suore dispiaciutissime, perché le diagnosi erano proprio infauste.
Dopo qualche giorno mi hanno ricoverata e sono rimasta lì un mese. Era un reparto dell’università di Padova e ricordo questi grandi medici che arrivavano vicino al letto con lo stuolo degli studenti attorno. Non c’erano suore e questo un po’ mi pesava; non perché io volessi le suore a tutti i costi, ma essendo abituata in un certo ambiente mi sarebbe sembrato di avere delle amiche vicine e poi forse le suore del mio istituto avrebbero potuto parlare più facilmente con loro.
L’ospedale è stato per certi versi un’esperienza nuova; di quella dei primi anni, quando sono stata operata agli occhi da bambina, non conservavo tanti ricordi… Ricordo d’aver tanto sofferto e basta.
Lì a Padova mi ritrovavo in questa stanza grande, in mezzo a tante persone… C’era molta curiosità perché mi vedevano leggere con le mani e si avvicinavano per osservare. Atri invece mi trattavano con compassione, come succede spesso in ambienti del genere dove c’è la tendenza a sentirsi sempre più fortunati degli altri… Per fortuna!
Beh! È proprio così l’ospedale.
Dopo un mese sono stata dimessa con una diagnosi, dicevano loro, di tumore. Ma secondo me c’erano molti punti interrogativi….
Sono tornata a casa perché ora le suore non mi volevano più in Istituto. L’Istituto era fatto per studiare, non era una infermeria. E quindi sono tornata a casa nella mia assoluta povertà.
Ero quasi sempre a letto sia perché tanto non mi potevo muovere, sia per subire meno i disagi dell’inverno.
E senza nemmeno la possibilità di studiare, a questo punto.
Senza niente, proprio assolutamente niente.
Papà non è che rimanesse fermo; ha incominciato a portarmi da altri medici e questi hanno deciso che dovevo essere operata.
Un’altra volta, come era già successo del resto
Appunto! Agli occhi sono stata operata sei volte ed è stato un insuccesso.
E non è certo una cosa da nulla operare la colonna vertebrale!
Senza una diagnosi precisa.
No, senza una diagnosi precisa. In quegli anni la Mutua di Vicenza mandava i suoi pochissimi malati al Lido, in una casa di cura detta Solarium. Era un ambiente spiritualmente freddissimo, non c’erano religiosi, avevano tolto il crocifisso dappertutto e se qualcuno moriva non chiamavano neanche il sacerdote.
È lì che sono andata a finire. Hanno deciso di operarmi perché, come avevano detto a papà, dovevano provare … o vivere o morire.
Io, come ho detto, non riuscivo a capire niente, e così subivo.
Ma forse non capivano molto nemmeno i medici.
Ma anch’io a quei tempi non ero abituata a parlare e non sapevo farmi sentire.
D’altra parte a diciotto anni ancora non si è forti abbastanza da farsi valere…
Certo, e quindi lì, a Venezia, in questo ambiente, hanno deciso di tentare.
L’operazione era fissata per il 6 luglio, ricordo.
Hanno chiesto ai miei di venire ad assistermi ed è arrivato papà perché era sempre lui che voleva essermi vicino nei momenti più difficili.
Prima dell’operazione mi hanno fatto un sacco di fotografie perché, se l’operazione fosse riuscita, poi avrebbero fatto un piccolo film; cose che servivano a loro.
E poi comincia l’operazione. Un male, da non immaginarsi, da non poter dire.
Perché questo medico non voleva servirsi dell’anestesia.
Mi hanno fatto varie iniezioni, penso fossero dei tranquillanti e degli analgesici.
Inizia l’operazione e per tenermi più ancora sveglia mi faceva diverse domande. C’era una dottoressa che mi teneva il polso, ricordo, e lui canterellava… «Oggi che magnifica giornata», pensa!
Incomincia dunque l’operazione; all’inizio non riusciva a fare l’emostasi per cui ho perso tantissimo sangue.
Poi ha incominciato a lavorare sulle ossa e quindi… dolori da morire. Ad un certo momento mi sentivo proprio mancare e ho avuto la forza, anche se ero girata a pancia sotto, ho fatto il segno della croce. Allora quella che mi teneva il polso si è spaventata e ha incominciato a dire «Professore, non ce la fa».
E io sentivo tutto, sentivo proprio tutto. Lui, che aveva il vizio di bestemmiare, ha incominciato a imprecare, a darsi da fare, e poi ha sospeso l’operazione.
Di solito non lasciavano entrare nessuno e invece hanno fatto venire papà; la sala operatoria era come una macelleria in quel momento, tutte macchie di qua e di là.
E io avevo perso tanto sangue, avevo anche disturbi di circolazione…ero praticamente in fin di vita.
Ricordo che ho chiesto acqua: di solito non si dà acqua a una persona operata, ma il medico ha detto: «Datele tutto quello che vuole».
Sono rimasta lì, in sala operatoria, per un paio d’ore. Per me è stata un’impressione tremenda e anche papà era proprio scioccato. Ha spedito tre telegrammi a casa per avvertire che stavo male, perché si preparassero insomma.
Poi mi hanno portata nel mio stanzino, in una posizione, guarda, da non descrivere… Solo che mi toccassero io sentivo un male insopportabile. Mi hanno dato la morfina, però sono incominciati ad accentuarsi anche i miei disturbi di cuore e quindi ho dovuto prendere medicine anche per quello.
Medici e infermieri erano sempre lì, mi hanno assistita abbastanza, non posso dire di no.
Più di qualche volta mi sentivo partire, così ho l’esperienza di essere arrivata sulla soglia dell’aldilà. Ci sono andata proprio vicina, e mi sembra ancora di rivivere quel momento, però… se è così, non dovrei avere paura della morte, perché era una sensazione quasi dolce, l’impressione di essere lontana e distaccarsi, ma serenamente, quietamente. Forse era l’effetto della morfina, però.
O, anche, l’effetto della fede. Se in quel momento ti sei fatta il segno della croce, probabilmente non derivava solo dal farmaco la tua tranquillità, ma anche da qualcosa di più profondo.
E sempre accanto c’era papà, che non si muoveva mai ed era rassegnato al peggio. Invece, inaspettatamente, ho cominciato a riprendermi. E ne sono uscita, malgrado che nessuno lo pensasse, con sofferenze enormi.
Mi ritenevano una miracolata e godevo di tante attenzioni o, come dire, di un trattamento quasi particolare. Anche i medici erano gentili.
Ricordo in particolare un tenente d’aviazione che era ricoverato lì e mi veniva spesso a salutare. Eravamo nel ’49 e lui aveva con sé Ossi di seppia; forse si era accorto che mi piacevano tanto le poesie e così veniva a leggermene qualcuna, a parlarmi e a raccontarmi di queste cose.
E così è aumentato ancora di più il mio desiderio di leggere e di immergermi in questo mondo che sentivo proprio mio; non ricordo più neppure il nome di questa persona, ma ricordo i suoi gesti delicati, il suo modo cortese di farmi compagnia, di farmi passare un po’ il tempo… E grazie anche a questo anche quel periodo è passato.
E probabilmente ti ha aiutato ad avere quella forza interiore che ti ha fatto superare la malattia.
Sì, forse sì. Ma avevo anche tanta voglia di vivere… e quindi poi sono tornata a casa.
Dopo un mese i disturbi sono tornati come prima, perché con l’operazione non avevano risolto niente, e ho dovuto passare l’estate con un bel corsetto di gesso che non mi lasciava muovere neppure le braccia.
In teoria avrebbe dovuto alleviare le tue sofferenze.
Sì, doveva aiutarmi a sostenermi. Io in quel tempo non è che riuscissi a capire molto, anche perché niente si faceva per farmi capire qualcosa.
Il tempo passava; eravamo giunti all’autunno e io volevo tornare alla scuola; la Provincia, che pagava la retta, non si è mai preoccupata di sapere cosa stava succedendo. Pagavano gli studi per un certo periodo di anni e del resto non se ne occupavano.
Così, visto che la mia retta veniva ancora pagata, mi hanno lasciata tornare all’Istituto. Ma è stata una delusione e una sofferenza da non dirsi. Mi erano tornati i dolori, abbastanza forti, alla schiena, sempre con un po’ di febbricola. In quell’ambiente non erano preparati e non potevano accettare una persona come me; tutti i momenti mi ripetevano che quello non era un ospedale. Io allora non riuscivo a capirlo però, pensandoci bene, avevano ragione loro.
A studiare non è che riuscissi molto; io non potevo stare seduta a lungo e con il pianoforte è necessario invece mantenere una determinata posizione, ben corretta, per poter suonare bene.
Mi avevano accolta per carità, convinte che dovessi morire presto
Ho resistito solo alcuni mesi, fino a Natale, e poi ho ceduto perché ho capito che in quel momento quello non era il mio posto.
E allora ho cominciato la trafila dei medici; se fossi andata da mille, mille sarebbero state le diagnosi; così non si capiva niente e non era neppure possibile adottare una cura che potesse alleviare un po’ le sofferenze.
E la mia situazione era aggravata dalle condizioni molto disagiate della mia famiglia. Ma bisognava andare avanti.
Poi un medico ha deciso di farmi ricoverare a Mezzaselva dove c’era un Istituto Elioterapico che accoglieva gli ammalati di TBC ossea; lì facevano anche operazioni e trapianti di vario tipo.
Volevano tentare un trapianto ed era già tutto predisposto, comprese le firma di consenso dei familiari. Ma poi ad un certo momento il Primario mi ha detto «No, io non me la sento; penso che di miglioramenti ne troveresti pochi, anzi è più probabile che peggiori la tua situazione».
Quindi mi ha lasciato così; io mi ero illusa, ormai avrei fatto qualunque cosa pur di vedere qualche miglioramento… non accettavo questo discorso e anzi gli ho risposto male, ricordo, quella volta. Ora penso che sia stato meglio così. Forse è stato lo Spirito Santo a illuminarlo.
Ma a quel punto non avevi altre prospettive.
No, niente, assolutamente niente… Però, non mi sono fermata. Mi sono detta: «Va bene, se l’operazione non si può fare, vediamo come prepararmi per rientrare all’Istituto».
Mi sono procurata un busto nuovo, di celluloide, e nel ’51 sono rientrata all’Istituto.
E lì come ti hanno accolta?
Mi hanno accolta… Il mio maestro invece di farmi studiare, quando andavo a lezione, suonava lui. Ma in fondo era anche un atto di delicatezza nei miei confronti: lui vedeva che mi stancavo, che non riuscivo, e allora lo faceva lui.
E le suore erano un po’ più affettuose e comprensive e allora in questa atmosfera sono riuscita a riprendermi e a convincere, me e gli altri, che sarei riuscita a fare ancora qualcosa.
In Istituto non facevo le stesse attività delle altre; per esempio, invece di studiare sei ore al pianoforte, ne studiavo tre. Riposavo un po’ di più, le suore erano comprensive.
Ho ripreso anche gli studi del pianoforte. Io non potevo, ad esempio, suonare con le mani incrociate, però il maestro cercava, tra tutti i brani del programma, quelli più adatti a me..
Gli esami precedenti li avevo fatti quasi tutti, mi mancava Storia della musica e Armonia complementare, e poi potevo sostenere l’esame dell’ottavo anno. È un esame molto difficile soprattutto per noi che dobbiamo imparare tutto a memoria. C’erano 24 tra preludi e fughe di Bach, 23 studi di Clementi e tanti altri brani; un programma vastissimo e doverlo imparare tutto a memoria è un po’ un guaio però, mettendoci tutta la buona volontà, si può fare. L’ho fatto io, l’hanno fatto tanti altri, e con voti anche molto lusinghieri.
Intanto il tempo passava e sono riuscita in due anni a recuperare il tempo perso ed è arrivato il momento di sostenere questo famoso ottavo anno. Avevo un po’ paura, però l’ho sostenuto con fiducia ed è stata la più grande soddisfazione della mia vita, e ancora adesso la ricordo. Di soddisfazioni ne ho avuto ancora tante altre, però… affrontare un esame così difficile, anche fisicamente, e riuscire a superarlo… ancora adesso mi sembra impossibile; anche i professori si sono meravigliati perché sono riuscita a prendere la media dell’otto.
Il tuo maestro, dicevi, ti faceva fare meno esercizio degli altri…
Dopo invece mi ha aiutato tanto. All’inizio neanche loro riuscivano a capire fin dove io potessi arrivare e cosa volesse dire questa malattia.
Poi no, mi hanno aiutata e preparata benissimo.
Ricordo il giorno, l’8 ottobre del 52; un giorno meraviglioso per me, perché ho dimostrato a me stessa che potevo farcela, ho mostrato agli altri che quando c’è buona volontà si può arrivare, e anche bene, e quindi ero contenta, molto contenta.
Aver superato questa prova è stato forse per te come il passaggio del Mar Rosso, qualche cosa che ha costituito la tua persona e dà forza e fiducia anche per i momenti successivi.
Eh sì, proprio. Un passaggio difficilissimo, e la soddisfazione è stata solo mia, intima… Perché, sai, nella scuola riesci, ricevi un bravo, tutti soddisfatti, ma poi finisce lì.
La mia famiglia era felicissima; poco riuscivano a capire però godevano dei complimenti che si sentivano attorno.
Però, soprattutto, io l’ho festeggiata dentro di me: è stata una conquista, guarda, una vittoria meravigliosa… E ancora adesso, ogni anno, l’8 ottobre io me lo festeggio!
Hai ragione, hai ragione!
Anche se non era l’ultimo esame, però l’ottavo anno mi dava la possibilità già di insegnare, se avessi voluto.
Dopo ho studiato altri due anni e ho preso il diploma finale di Magistero. Per questi esami sono andata al conservatorio Pollini, perché io figuravo come una allieva esterna.
In quell’anno insegnava pianoforte il Maestro Omizzolo, da Vicenza e, ricordo, ho fatto l’esame con lui… Dopo aver eseguito il pezzo estratto a sorte, mi sono alzata e lui mi è venuto vicino e ha messo un braccio attorno alle mie spalle; sentendo il corsetto ha avuto uno scatto di meraviglia…
Ho fatto gli esami nella sessione autunnale e quindi le vacanze erano già concluse. Così sono rimasta lì con le mie compagne, cercando di riempire tutti gli spazi e di fare il possibile per rendere serena a me e a loro questa vita che non sempre può apparire tanto lieta.
A Natale sono tornata in famiglia per le vacanze e avevo sempre in mente le mie compagne, le bambine, le ragazzette e mi dicevo: «Come posso lasciare loro un ricordo particolare, come posso offrire qualcosa di diverso che l’Istituto non può dare». Io ho sempre avuto una fantasia fervida ed erano tante le cose che mi mettevo in mente… Una notte non riuscivo a dormire e pensando e ripensando mi sono detta: «Adesso scrivo a Marzotto, chiedo se mi dà un po’ di soldi per offrire alle mie compagne qualche giorno di vacanza fuori dell’Istituto».
Non ho chiesto niente alla Direttrice, non ho detto niente ai miei, non ho detto niente a nessuno e ho scritto una lettera a Marzotto. Era l’unico che in quel tempo conoscevo come signore, come, persona che aveva molte possibilità. «Come va, va! Vediamo»
Sono tornata in Istituto e qualche mese dopo, eravamo già in febbraio, un giorno arriva la Direttrice e mi chiama: «Ma tu! Cosa hai fatto, cosa hai fatto!»
Ho fatto fatica a capire a cosa si riferisse. Era arrivata la risposta di Marzotto, con i soldi che avevo chiesto.
«E allora – dice lei – e adesso cosa facciamo?»
Loro avrebbero voluto spenderli in altro modo, ma io mi sono impuntata. «No, ho fatto questo per regalare un paio di giorni di festa alle mie compagne e quindi dobbiamo solo stabilire dove andare».
Siamo andate nel Trentino; prima a Trento, poi abbiamo dormito a Pergine, siamo andate alla Madonna di Pinè… Abbiamo passato due giorni bellissimi, viaggiando anche in treno, quindi cantando, divertendoci.
Ecco: la mia gioia per aver dato gioia.
Poi, sai com’è, le suore insistevano: «Scrivi ancora, scrivi che abbiamo bisogno di vestiti, che abbiamo bisogno di quello…»
Poi è finito anche quell’anno scolastico e l’anno dopo sono ritornata appunto per diplomarmi.
Dovevo studiare abbastanza intensamente per poter conseguire un punteggio abbastanza alto; io non avrei accettato un voto risicato, un sei ad esempio, perché non volevo si dicesse: «Poverina, non vede». Non volevo un voto dato per pietà.
E i dolori continuavano, però continuavo anch’io. Non ci badavo molto allora… Se ci avessi badato forse avrei tirato avanti un po’ di più, perché dopo c’è stato il crollo…
Avevo l’esame il 13 luglio del ’54. Sarà stato per il caldo tremendo, per le mie crisi di cuore, per il corsetto sempre stretto, per l’agitazione e il nervosismo dell’esame… una mattina a Messa, qualche giorno prima dell’esame, mi sono sentita male e sono tornata a letto.
Il mio maestro, che mi stava preparando, mi supplicava e diceva: «Non farlo ora, rimandiamo, lo facciamo in autunno»
«Eh no – dicevo – o adesso o mai più». E lui: «Vedi che non puoi farcela, ti rovini il voto…»
Ho insistito e l’ho fatto; forse un po’ meno bene di quello che avrei potuto fare e ottenere, però ce l’ho fatta ed ero quindi contenta.
Avevo finalmente tra le mani qualcosa che incominciava a permettere ai non vedenti di guadagnarsi da vivere, di svolgere un lavoro e anch’io, malgrado tutto, potevo dire: «Anch’io faccio qualcosa, anche la mia vita serve a qualcosa: a me, prima di tutto, ma anche per insegnare agli altri che in qualsiasi condizione, se non manca la buona volontà, si può raggiungere qualsiasi meta».
Con il magistero e il decimo anno di pianoforte avevo raggiunto, con grandi sacrifici, il traguardo dei miei studi.
Però l’avevo raggiunto, e quindi così davo l’addio all’Istituto dove avevo trascorso tanti anni di fatica, ma anche di grande serenità. Dove non sono mancate le incomprensioni e i problemi tipici della vita in comunità, ma dove era anche bello vivere assieme alle compagne, ritrovarsi, ragionare insieme, stare insieme.
Dicevi che il tornare a casa non era sempre per te una gioia totale
No, e soprattutto nei primi anni della mia giovinezza
Adesso stavo maturando ed ero già preparata, dentro di me, al ritorno in famiglia, in mezzo agli altri; sapevo che avrei incontrato difficoltà molto maggiori di quelle trovate in istituto, ma le conoscevo ed ero pronta. Certamente titubante e con un po’ di paura, perché mi sentivo ancora una volta sorretta solo dal grande affetto dei familiari.
Prima di partire ho fatto una piccola festina con i miei insegnanti, non solo per salutarli ma anche perché avevo iniziato a ricevere quella piccola pensione che si cominciava a dare ai ciechi. Più tardi sarebbe stata concessa anche agli altri invalidi civili ma allora la davano solo a noi.
Avete aperto la strada, quindi.
La nostra Unione era molto combattiva e attenta, ha sempre fatto grandi passi per noi, e quindi spesso eravamo i primi.
Anche se allora volevano togliercela questa pensione, che era poca cosa. Non saprei fare il confronto con oggi, comunque ci davano 2000 lire al mese. E allora i nostri dirigenti per difenderla, ma anche per ottenere qualcosa di più, hanno organizzato proprio quell’anno, nel 1954, la famosa “marcia del dolore”. Molti nostri compagni sono partiti a piedi da Firenze per raggiungere Roma, trovando per strada la solidarietà di molta gente.
Fu una iniziativa che fece molto colpo e quindi hanno salvato la nostra pensione, che esiste ancora adesso.
Però non è finita perché anche adesso, ogni anno, bisogna lottare. Quando è il momento della finanziaria è un disastro!
Ad esempio, vorrebbero toglierci l’indennità di accompagnamento, che è quella specie di pensione che aiuta i ciechi a superare tante difficoltà e alla quale hanno diritto tutti i ciechi, indipendentemente dal loro reddito…Per esempio un professore che insegna ha bisogno del suo lettore, o di una persona che l’accompagni e non trovi sempre quello che te lo fa per amicizia. Solo i ciechi di guerra hanno diritto al loro attendente, ma noi dobbiamo pagarceli i servizi. E a questo serve l’indennità di accompagnamento.
Quindi con questi primi soldi, ricordo, ho fatto la festina con gli insegnanti; solo con loro perché gli altri compagni avevano già fatto gli esami ed erano tornati tutti a casa. È stato bello, un addio un po’ così, sereno ma pieno anche di mestizia e di ricordi.