Ci hai raccontato dei tuoi soggiorni estivi ad Asiago
Sì, ed anche dei miei sentimenti… Sai, ero normale! Sono normale, con il cuore e con l’anima!
Mi fa piacere, anzi, raccontare cosa ho provato con le persone che ho conosciuto e con le quali non è stata tutta gioia. Ci sono state molte rinunce e un grande sacrificio, però oggi sono contenta e ne parlo con grande piacere perché m’hanno fatto soltanto del bene.
Sono stati incontri arricchenti, sia per te e sia per gli altri
Anche perché questi sentimenti nascevano dalla sofferenza ma anche dalla consapevolezza che bisognava essere testimoni autentici di quello che sentivamo.
Mi hanno fatto del bene e quindi ne parlo con piacere, senza rimpianti naturalmente, con la soddisfazione e la gioia di sapere che queste persone hanno trovato la loro strada e hanno realizzato quello che desideravano.
Io vivevo la mia vita abbastanza equilibrata, abbastanza serena.
Arriva l’estate del 1960 e sono andata ad Asiago, ma per poco tempo quell’anno, solo un turno, perché si doveva sposare un mio fratello e dovevo aiutarlo. Non lo posso certo dire che era il mio fratello preferito, perché sono tutti uguali, ma era quello che mi stava più vicino, che aveva imparato a leggere il braille, che mi seguiva in tutte le cose, anche in quelle che mi sembrava impossibile che un uomo si adattasse a fare.. e allora avevo questa simpatia e l’ho aiutato.
Il mio aiuto consisteva nel lavorare, ma con fatica e a lungo, per tirare la lana per i materassi. Non era un lavoro che io potessi fare, ma in quel momento non mi sembrava così grave. Poi, invece, sono andata ad Asiago, non mi son sentita bene e lì sono andata in scompenso cardiaco. E sono cominciate tutte le mie grane…
Ne avevi avute già abbastanza! In questo periodo continuavi a portare il busto per i dolori alla schiena, e quindi oltre a questo si e’ aggiunto….
…si è aggiunto questo disturbo; stavo spesso male, avevo tachicardie violentissime e allora sono stata ricoverata in ospedale. Io ero già stata in ospedale da bambina, poi quando sono stata operata, e anche a Padova, ma allora non mi ero proprio resa conto ancora di quello che potevo sentire e provare, forse perché era la prima volta, era una novità, ero presa da tante novità.
Ma questa volta in ospedale mi sono trovata malissimo.
Qui, a Vicenza?
Si, a Vicenza.
Mi sono trovata malissimo, mi sono sentita un oggetto, una persona che non poteva parlare, che non poteva chiedere. Mi dicevo: «È il mio carattere, sono io così, devo vincere anche questo, devo migliorarmi…». Ma sono passati una ventina di giorni e ho chiesto di tornare a casa.
Però la salute andava sempre peggio. Sono arrivata a casa in ottobre, ma in dicembre sono dovuta tornare.
Però ho cambiato ospedale, sono andata in uno piccolo, a Lonigo. Lì era primario un professore che avevo conosciuto giovanissimo e che mi aveva fatto una buona impressione fin dalla prima visita.
L’ospedale di Lonigo era del tutto diverso; il primario, al quale devo una riconoscenza immensa, mi è stato vicino, mi ha capita, mi ha aiutata e pretendeva anche che gli altri fossero attenti come era lui. E infatti tutti erano come lui. Ricordo ancora di un medico che si era chinato per cercarmi le ciabatte e metterle al posto giusto perché non dovessi cercarle inutilmente.
In quell’ospedale mi son trovata molto bene, a parte il dolore fisico…
Son tornata a casa, ho continuato le mie cure. Ma è successo un guaio: io dovevo prendere la “digitale” però questa è accumulativa e quindi in certi giorni dovevo sospendere la cura. Io però mi sentivo male e la prendevo lo stesso così dopo 4-5 mesi son stata peggio e sono tornata in ospedale.
Sempre lì, perché ormai volevo andare solo a Lonigo, poi hanno deciso di mandarmi a Mezzaselva, in montagna. Dopo alcuni mesi ho cominciato a non tollerare più l’aria e l’altitudine, mi sentivo male, e ho fatto domanda per un altro ospedale. Doveva essere uno sovvenzionato dalla previdenza sociale, dai consorzi antitubercolari; io mi sono innamorata del nome di un ospedale di Desenzano, sul lago di Garda: si chiamava “Villa del Sole”.
Oh mamma! Che disastro! C’erano tutte persone stabilizzate, che avevano fatto della loro malattia un po’ una mania e venivano sì e no badate, anzi quasi mai. Alla notte non c’era assistenza mentre io ne avevo bisogno, e soprattutto di notte. Cosa facevo, chiamavo un’altra ammalata?
Sono riuscita ad avvisare casa e farmi venire a prendere. Poi ci sono state anche delle ispezioni; sai, ero un caso particolare, un po’ speciale, e ho fatto nascere un po’ un putiferio…
Dopo un po’ di tempo sono andata a Malcesine e lì era tutta un’altra cosa, un ospedale con tanta assistenza dove curavano intensamente, usando anche farmaci nuovi.
E intanto davo addio ai miei sogni, non di gloria, ma di insegnamento, perché ero sempre in giro per gli ospedali.
Vorrei ora parlare della difficoltà, anzi…della sofferenza, che prova un non vedente quando viene ricoverato in ospedale.
Adesso è un po’ di tempo che non ci vado perché ho la fortuna di essere curata ugualmente, però ricordo i disagi di quegli anni.
Quando entravo in ospedale spariva la mia identità, ero il numero del letto. Pazienza, questo capita a tutti, ma per noi che non vediamo era come se ponessero lì un pacco postale.
Venivano le infermiere, pur gentili e carine, però loro seguivano di solito l’andamento dell’ospedale. Allora, non so: «Apri la bocca».
Uno che non vede apre la bocca, certo… Chi vede, vede la pastiglia, si rende conto, si può immaginare tutto questo.
Un disagio terribile. E allora la reazione che viene immediata: «Ma insomma, perché devo aprire la bocca, la pastiglia me la puoi dare anche in mano, puoi spiegarmi che questa è la tal pastiglia…».
Forse non era permesso, forse non volevano che l’ammalato sapesse che cosa prendeva… ma anche loro si potevano sbagliare! A me è successo: mi sono accorta che la pastiglia non era quella destinata a me.
Arriva l’infermiera con una pastiglia… Ricordo ancora il nome, “Tofranil”, doveva essere uno psicofarmaco.
Mi dice: «Apra la bocca!» « Eh no – dico – Perché? Che pastiglia è?»
E, caso strano, quella volta mi ha detto il nome. «Beh, allora, se è proprio per me, la porti pure al primario e gli dica che se la prenda lui». È andata fuori sbuffando ma poi è ritornata dicendomi: «Mi deve tanto scusare, ma qui prima di lei c’era una persona che prendeva questa pastiglia… »
Eri il numero del letto!
Ero il numero del letto.
Ma di queste cose ne succedono tante.
Quando so che qualche mia amica entra in ospedale, mi torna ancora questa angoscia.
L’anno scorso è mancato il mio carissimo maestro di pianoforte del Configliacchi. Il suo grande desiderio degli ultimi giorni era quello di avere una stanzetta per se, di non dover stare in una sala comune.
L’ho capito benissimo: trovarsi tra otto, dieci persone che forse ti stanno con gli occhi addosso, che forse ti guardano… Tu sai che loro ti possono guardare, non sai nulla della loro espressione, non sai niente.
Ecco, lui desiderava una stanzina e non ha potuto averla, ed è morto con questo desiderio. Io mi porto dentro ancora l’affanno di questa persona e mi dico: non so cosa avrei dato perché almeno gli ultimi giorni fossero stati più sereni, più quieti.
Vedi, io ho avuto poi la fortuna di trovare, anche negli ospedali, persone sensibilissime e molto care che mi hanno voluto e mi vogliono ancora bene, che mi hanno aiutata a lottare contro i pregiudizi.
Posso dirmi fortunata, però ancora adesso se io dovessi avere bisogno di un ospedale… non so come farei.
Quello che ci stai dicendo, Urbana, spero che sia utile un po’ a tutti. Il disagio che può provare un non vedente noi lo possiamo solo immaginare, però l’ospedale è un ambiente difficile anche per i vedenti perché si incontrano, purtroppo, ancora medici e infermieri che considerano il malato come il numero del letto, non come una persona.
Forse qualcosa sta cambiando, la formazione del personale sanitario è più curata anche sotto questo aspetto e si incontrano sempre più spesso persone che hanno la sensibilità di capire.
Ma è un discorso che riguarda anche tutti noi, non solo chi lavora in ospedale, noi che spesso guardiamo l’altro solo per quello che fa o per quello che dice, non per quello che è.
Certo, è difficile guardare l’altro per quello che è. Ma non impossibile.
Io ho stabilito con diverse persone, conosciute in ospedale, un bellissimo rapporto d’amicizia. Ho tante infermiere che mi vengono ancora a trovare, che mi sono amiche e sono certa che si comporteranno così anche con altre persone.
Tornando dunque a quegli anni, dal ’60 al ’70, io ero quasi sempre ricoverata in ospedale; in vari ospedali, non sempre nello stesso.
L’ultimo ricovero di quel periodo è stato nel ’70. Sono andata a Vicenza, mi sono trovata bene ora che era primario il mio professore.
Il problema, purtroppo, era che non riuscivo a capire chiaramente cosa pensassero i medici e come giudicassero la mia situazione. È esatta questa diagnosi, o è sbagliata? Era sbagliata la prima, quand’ero bambina, o è sbagliata anche questa? Non riuscivo mai a venirne a capo.
Se m’avessero visitato un centinaio di medici, ci sarebbe stato un centinaio di opinioni diverse. E allora io non mi sentivo sicura…
Una volta, con me non l’hanno mai fatto per fortuna, quando non riuscivano a capire che cosa avesse il malato dicevano che aveva l’esaurimento nervoso. Anche adesso un po’ è così, con la depressione: oggi sei depressa, allora eri esaurita.
A me dava fastidio e avevo paura che mi giudicassero così, che giudicassero il mio male, i miei dolori anche frutto di suggestione, dovuta anche alla cecità. Perché molti medici pensano che uno che ha già una menomazione debba crearsene delle altre. E quindi a volte non ti badano…Siccome io ho avuto la fortuna di farmi badare, per me é stato sì difficile, la sofferenza é stata tanta, ma ho avuto anche la soddisfazione di farmi capire.
Ho passato quegli anni così: i miei mi stavano molto vicino; io ricordavo poco, forse non volevo ricordare, i miei anni d’istituto perché la nostalgia mi faceva male, perché il rimpianto di non poter più suonare, insegnare… era grande. Era un dolore grande.
Però incominciavo a cogliere anche il positivo di tutta questa situazione; stavo prendendo coscienza che la mia vita doveva cambiare completamente.
I sogni che avevo fatto a vent’anni non erano più validi e quindi dovevo accettare la realtà per quello che era e renderla meno triste possibile. Ho cominciato a lavorare dentro di me, nel mio interiore, per rendere meno doloroso quello che sarebbe venuto dopo.
Hai cominciato a lavorare dentro di te
Questo penso sia qualcosa che ognuno di noi deve fare, che abbia sofferenze grandi o meno grandi; questo lavoro dentro va fatto.
Tu puoi dirci qualche cosa, offrirci qualche spunto, qualche indicazione?
Sai, per me cambiava completamente tutta la vita; io ero costretta su un letto e quando si è costretti su un letto che cosa si può fare?
Non posso mica tutto il giorno star lì ad ascoltare le canzonette, oppure… non lo so. Allora cosa devo fare? Devo riempire tutta la mia vita, ogni piccolo spazio, non dare alla noia la possibilità di entrare, perché la noia è una bruttissima malattia.
E quindi tornata dall’ospedale con questa convinzione di dover cambiare tutto mi sono detta: che cosa devo fare prima di tutto?
Riempire ogni spazio.
Di che cosa?
Ho cominciato ad esempio a lavorare a ferri, che non mi piaceva.
Io avevo tanti nipotini, incominciavo ad averne tanti, anzi… allora non ne avevo ancora molti. E allora fare il golfino, fare le scarpette, fare i paltoncini…. Ha cominciato a divertirmi, ha cominciato a piacermi. La gente vedeva… «Oh, fallo anche per me!» e allora con la mia volontà e anche fatica…
Sì, perché muovere le mani e lavorare a ferri per te che avevi questi dolori un po’ dappertutto doveva essere faticoso…
Era molto faticoso, perché adesso non lo posso più fare, a malincuore.
Ecco, questo era un modo per riempire gli spazi.
Poi ho incominciato ad ascoltare le cose più belle della radio, e ho ripreso a leggere quasi con accanimento, come mi succedeva prima.
Ho incominciato ad aiutare i bambini che andavano a scuola, perché ai nipoti qui in casa ho insegnato io a tutti a leggere e a scrivere. E dopo venivano a studiare da me; ripetevano la lezione, mi davano tanta soddisfazione perché quando riuscivano bene a scuola mi sentivo orgogliosa.
Quindi, vedi, non mi sono lasciata andare.
Ero sempre indaffaratissima, ma non riuscivo a dire a nessuno: «Non ho tempo». Non avevo neppure il coraggio di dirlo. «Figurati se ci credono!» mi dicevo.