Un giorno ascoltando la radio ho sentito parlare di come aiutare una scuola per bambini non vedenti del Togo.
E’ stata come una folgorazione: «Essi sono come me – ho pensato – provano le difficoltà che ho provato io, i miei stessi disagi di povertà, di emarginazione; più di loro, chi potrei aiutare?»
Aiutarli nell’istruzione, nella cultura, che per me è stata luce… Anche per loro, come per tutti gli altri non vedenti, la scuola deve portare luce, aprire la loro anima, aiutarli a capire meglio gli altri uomini, a valorizzare la propria personalità e la propria dignità.
Era il progetto più bello ed importante che avessi mai incontrato e mi ci sono buttata a capofitto
Questa scuola ha un nome: “Kekeli Neva”. Io ne so qualcosa, ma non molto; mi spieghi meglio di cosa si tratta
“Kekeli Neva”, in lingua Évé, la lingua del Togo, significa “la luce venga”, e questo bel titolo augurale è stato dato dal suo fondatore, Padre Fabio Gilli; un padre comboniano cieco che ha perso la vista per la retinite pigmentosa quando era già missionario laggiù.
In seguito è tornato per alcuni anni in Italia, ha imparato a leggere e a scrivere in braille, poi è stato in Francia. Quando è tornato in Togo per riprendere la sua vita di missionario, anche se da non vedente, è stato accolto a braccia aperte dai confratelli.
Qualcuno poteva pensare che un missionario cieco, in un ambiente così difficile, non serviva a niente…
Ma lui ha pensato proprio ai ragazzi del Togo che non vedono e, assieme ad altri, ha fondato, nel 1984, questo Centro Kekeli Neva. Ha cominciato con 5-6 ragazzi ospitati in tre piccole costruzioni in cemento;poi ha chiesto aiuto alle suore le quali molto volentieri si sono offerte e così è nato questo istituto. Con niente, solo qualche tavoletta da scrivere il braille e poche altre cose.
Hanno organizzato l’insegnamento seguendo i programmi delle scuole francesi e hanno mostrato, anche in quel paese, che i ciechi possono leggere e scrivere, possono farcela.
Attualmente la scuola ospita 72 ragazzi, dai 3 anni in su.
Che così ora hanno la possibilità di prendersi un diploma pubblico, uguale a quello di tutti gli altri.
Ora sì, ma non è stato facile. Dopo qualche anno hanno deciso di chiedere ai Fratelli Spagnoli, che gestiscono una scuola secondaria lì vicino, se accoglievano qualche ragazzo che aveva finito le scuole elementari dentro all’istituto.
All’inizio non volevano, perché erano convinti che un cieco non avrebbe potuto far niente ma poi, viste le insistenze, li hanno messi alla prova e… sono risultati anche più bravi dei loro vedenti. E quindi non ci sono stati più problemi e adesso ce ne sono diversi che studiano lì, con buoni risultati.
La direttrice ci comunica ogni anno tutti i risultati scolastici, ci manda dei foglietti con le fotografie degli studenti, la loro età, che scuola hanno frequentato… ecco, tutto chiarissimo.
Hanno cominciato anche ad uscire dall’Istituto e a farsi conoscere all’esterno; questo è molto importante in un paese in cui i pregiudizi verso i disabili, i ciechi in particolare, sono ancora molto forti. E stanno avendo delle belle soddisfazioni anche loro, soprattutto con la corale; che viene invitata spesso a cantare in varie manifestazioni e recentemente anche al concerto di Natale a Lomé, la capitale. È importante, perché in questo modo cominciano ad avere quel riconoscimento di cui hanno diritto, come persone che hanno sicuramente una menomazione sensoriale però il loro spirito è identico a quello di tutti i vedenti.
La scuola quindi funziona bene, ma ha bisogno di aiuto. Per questo è nato il gruppo san Francesco.
Noi ci siamo impegnati a pagare gli stipendi agli insegnanti della scuola; quando Padre Fabio mi ha detto la cifra necessaria ho risposto: «Va bene, ci penseremo noi».
Ed era una cifra impegnativa ma abbastanza limitata. Ma come fare per raggiungerla regolarmente, tutti gli anni? Non si può star lì ad aspettare che arrivino le offerte straordinarie. E se non arrivano?
Allora ci siamo tutti autotassati, chi per una quota minima chi più sostanziosa, a seconda delle possibilità e anche della generosità.
E in questo modo riesco a raccogliere, ogni anno, una somma almeno vicina a quello che serve. Per integrarla organizzo delle lotterie, degli spettacoli. Poi arrivano delle offerte straordinarie: chi spera di ottenere una grazia, o ringrazia per quella ricevuta, chi magari va in pensione e allora offre una certa cifra…
Io spero sempre nella Provvidenza.. Anche perché adesso, oltre alla cifra fissa che serve per mantenerli e pagare gli insegnanti, ci siamo prefissi di regalare una stamperia braille informatica che costa come minimo venti milioni… E quindi c’è da lavorare…
Ci spieghi meglio di cosa si tratta?
È una stampante braille che, collegata ad un computer, stampa libri con la nostra scrittura, la scrittura dei non vedenti. Loro hanno pochissimi libri in braille; fino ad adesso c’era un copista che li scriveva praticamente a mano, pagina per pagina, e poi con un’altra macchina, una specie di fotocopiatrice a rilievo, riproducevano le pagine in modo da ottenere più copie di uno stesso libro e poterle quindi distribuire ai ragazzi. Adesso si è rotta anche quella e quindi bisogna trovare una soluzione più efficiente, possibilmente un sistema di stampa attraverso il computer, come si fa qui da noi in Italia.
È un progetto impegnativo ma contiamo di farcela, perché la Provvidenza ci ha sempre aiutati e spero proprio che ci aiuti anche questa volta.
Ci hai parlato, raccontandoci la tua vita, della grande importanza che hanno avuto per te gli istituti specializzati per ciechi e forse, pensavo, la tua situazione di allora è un po’ simile a quella di questi ragazzi africani di oggi.
È vero, io non avevo proprio niente, come loro.
Quindi quello che ho ricevuto da questi istituti è stato veramente tanto e vorrei proprio offrire anche a loro di queste possibilità, loro che vivendo nelle capanne hanno provato difficoltà molto simile alle mie, a quelle di un non vedente al quale manca proprio tutto.
Io ero proprio partita come loro e potevo camminare con loro, passo passo; perché chi non ha provato certe cose non le può capire, e può partire a metà del loro cammino, ed essere fin dall’inizio molto più avanti di loro.
Per questa tua iniziativa ti è stato assegnato il Premio della Bontà. È vero?
Non credo di meritarmi un premio per questo, ma hanno tanto insistito… In quegli anni esisteva a Vicenza un club di persone generose, Everest mi sembra si chiamasse, sorto per fare beneficenza.
Con l’aiuto del comune e di alcune banche hanno istituito un premio della bontà. Sono venuti a cercarmi perché avevano saputo che io avevo iniziato quest’attività di aiuto dei ragazzi ciechi del Togo, hanno insistito e ho accettato.
Ma mi sono però sentita in dovere di dare un senso a tutto questo, e l’ho accettato, quindi, come provocazione, per cercare di far riflettere chi può utilizzare le sue mani, i suoi occhi, le sue gambe e potrebbe aiutare tanto chi ha bisogno.
Per testimoniare quindi che quello che sembra impossibile in realtà si può fare.
Certo che si può fare. In ogni caso il premio è stato utile perché i giornali ne hanno parlato e ciò ha comportato una certa pubblicità, molte persone mi hanno telefonato e sono venuta a contatto con molta gente che poi mi ha aiutato, e mi aiuta ancora, nella mia attività per Kekeli Neva.
Jolanda, in particolare. Vive a Vicenza, ha più di ottant’anni e si dedica con amore vero e cristiano alle persone della sua età, andando ogni giorno all’istituto per anziani a dar da mangiare a chi non è autosufficiente; offre, più della metà della sua pensione in beneficenza ed è sempre attiva, intelligente, buona, di quella bontà vera, umile, ma nel contempo dignitosa.
Da allora si occupa anche lei di Kekeli Neva, la nostra scuola nel Togo; io la presento sempre come esempio a tutti ed è stato questo il vero dono che ho ricevuto nell’occasione del Premio della Bontà.
Se ci fossero solo dieci persone così in una città, il mondo cambierebbe. Lei è sempre piena di pensieri per tutti: per i lebbrosi prepara le bende da mandare alle missioni, per gli anziani che le stanno attorno va a prendere il giornale, a fare la spesa, dal medico per le impegnative, a prendere le medicine.
Non perde nemmeno un attimo del suo tempo, quando torna dall’Istituto per anziani e va a casa, a volte incontra delle persone che la verrebbero accompagnare in macchina, ma lei rifiuta. Un giorno qualcuno mi ha chiesto se sapevo la ragione del suo rifiuto e allora io gliel’ho chiesto e lei mi ha detto che dall’istituto fino a casa ha il tempo di dire il rosario e se salisse in macchina non potrebbe più farlo.
Jolanda è un’amica cara che ammiro moltissimo, a cui vorrei somigliare e spero che sia d’esempio a molti.
E anche questo premio che poteva finire ad essere solo una soddisfazione per l’orgoglio, è stato positivo per le conoscenze fatte e perché abbiamo tratto il meglio che si poteva trarre.