Quell’anno io non sono tornata in istituto a Padova perché era chiuso, occupato dai militari,e così sono rimasta a casa tutto l’anno.
Un po’ alla vota siamo arrivati agli ultimi mesi della guerra e ho vissuto degli episodi anche divertenti, qualche volta.
C’era un treno molto lungo in sosta sulla la ferrovia, qui dietro casa mia; in linea d’aria erano circa trecento metri. Un giorno sono arrivati degli aerei per colpirlo. Era una domenica pomeriggio: papà mi prende sotto braccio e mi fa correre attraverso il campo, ma gli aerei hanno cominciato a mitragliare e lui si è buttato giù nel fosso! E, naturalmente, anch’io! Doveva esserci il ghiaccio ma come siamo saliti noi si è rotto e mi sono trovata con una gamba dentro l’acqua. E stai lì, stai lì…Per fortuna non è successo niente: se succedesse adesso, poveri noi!
Erano avvenimenti che dopo ci facevano anche sorridere..
Spesso, per fortuna, c’era nebbia e brutto tempo, gli aerei non volavano e allora mi salvavo dal terrore dei bombardamenti.
Quell’anno abbiamo fatto persino le frittelle, cosa che in casa mia non era mai successa perché mamma non poteva permetterselo e diceva che non era capace…
Avevamo saputo che il treno in sosta conteneva sacchi di zucchero non raffinato. Una notte un paio di ragazzi che avevano voglia di sfidare il mondo intero, senza capire il pericolo, avevano forato con una trivella il pavimento del vagone ed erano riusciti a procurarsi lo zucchero. E con questo zucchero rossastro, dolciastro, che non aveva niente del nostro zucchero, quell’anno lì abbiamo fatto perfino le frittelle.
Quindi questi ultimi mesi, un po’ perché stavi in famiglia, un po’ perché la cattiva stagione aveva rallentato le operazioni militari, le cose andavano un po’ meglio…
Sì, e poi a tutto ci si abitua, oppure ci si adegua. L’uomo è fatto così: a lungo andare bisognava anche abituarsi.
Una domenica mattina, ancora di domenica, mi sembra fosse l’Epifania del ’45, sono tornata da messa con mamma e c’erano questi aerei ed io non riuscivo a capire più niente, perdevo la testa…
Perché c’era stato un attacco?
Ma no, neanche. Ma io volevo scappare, volevo scappare… C’era una famiglia, abbastanza lontana anche da casa mia, più lontana naturalmente dalla ferrovia, e ho cominciato a correre. Ho perso persino le scarpe, ma corri lo stesso! Dove? Ho seguito la capezzagna, il sentiero in mezzo ai campi, e sono riuscita ad arrivare a questa casa.
Sono cose che, ripensandoci adesso, fanno dire: «Ma guarda come si arriva a perdere anche il bene dell’intelletto! »
E siamo arrivati ad aprile, e lì… lo sfacimento, la resa, la tristezza dell’uomo che perde. I tedeschi che ti chiedevano la strada e poi andavano dalla parte opposta.
Ma perché? Non si fidavano?
Perché non si fidavano, ma anche perché era proprio la ritirata, lo sbandamento finale, erano in arrivo gli americani.
Una mattina, una degli ultimi giorni, pioveva, papà era uscito. Vicino alla casa c’era un piccolo capanno e proprio lì sotto ha visto dei tedeschi. Si è spaventato ma li ha chiamati in casa, vicino al fuoco; si sono riscaldati, abbiamo offerto loro del caffè, o meglio dell’orzo… Uno era austriaco, l’altro tedesco; uno riusciva a capire qualche parola, l’altro rimaneva silenzioso, immobile quasi, nel suo terrore. E l’altro, più cordiale, ci mostrava le fotografie dei suoi bambini… Ecco, una pena immensa, questa mi è rimasta impressa.
Ci hanno chiesto dove erano i comandi tedeschi, dove erano i posti di blocco, e noi abbiamo insegnato la strada e come fare per evitarli. Vedendoli partire così abbiamo sperato con tutto il cuore che potessero farcela; non abbiamo pensato che erano i nostri nemici…
Avete poi saputo qualcosa?
No, non abbiamo più saputo nulla di loro.
E poi sono arrivati gli ultimi giorni della guerra.
Ricordo ancora: era un sabato, il sabato 28 aprile… perché da noi gli americani, non sono venuti il 25, come si ricorda con la festa della liberazione.
Si sentiva da lontano il rumore dei carri armati americani; la gente era tutta euforica, non si sapeva se ridere, se piangere, se essere contenti o meno.
Gli americani sono arrivati anche nel mio piccolo casolare, si sono fermati, sono entrati con i carri armati nel campo che c’era davanti a casa… e poi lì per un anno non è più cresciuto niente.
Si sono installati con i loro aggeggi mai visti… I telefoni, ad esempio. Per tutti, ma soprattutto per noi bambini, era una continua curiosità.
Non credo di aver mai assaggiato la loro famosa cioccolata, o la gomma americana… Mi ricordo solo che in casa mia era entrata una mezza lattina che non sapevamo bene cosa fosse, forse margarina. Sapevamo che serviva per condire e l’abbiamo accettata, immagina come! Ma abbiamo avuto anche delle esperienze negative: avevamo delle anitre, tutta la nostra ricchezza, e gli americani ce le hanno fatte sparire.
E poi ricordo gli ultimi soldati tedeschi morti, sepolti con i loro cavalli, dove capitava. E il nostro parroco ha preteso che dopo qualche giorno si scavassero delle fosse e si desse loro una sepoltura decorosa; perché, diceva, era giusto che i loro cari sapessero dove erano morti e dove riposavano. Quello che invece per mio fratello non è successo: lui è rimasto nella steppa e noi non sappiamo né dove né come sia morto…
E poi gli incidenti con i residuati bellici, lasciati un po’ dappertutto; anche vicino a casa mia due ragazzini hanno raccolto una bomba abbandonata e l’hanno fatta esplodere. Uno è morto, l’altro si è ferito molto seriamente.
La guerra era finita, ma di gioia non ce ne poteva essere ancora.
E questo valeva soprattutto per noi.
Avevamo perso una persona molto cara e di quel periodo, quando tutto sembrava tornare normale, rivivo soprattutto le angosce dei miei genitori, qualche volta addirittura le allucinazioni di mamma.
Noi eravamo piccoli, le stavamo vicino col nostro dolore, senza parlare, senza dire… Ma lei ci interrogava tutti, e pregava, e scriveva a Padre Pio… Di tutto ha fatto, di tutto.
A volte sembrava proprio non riuscisse capire niente; veniva qualche zingara che leggeva la mano, ce n’erano tante in quel periodo, prometteva e pretendeva e lei ci stava. Per fortuna che avevamo vicino papà.
Vivevamo con il ricordo del fratello non più tornato, con il dolore e la voglia dei miei di tenerlo ad ogni costo vivo. Ci parlavano in continuazione di lui e ci raccontavano quello che noi non avevamo potuto vivere con lui.
Papà e mamma non sono più riusciti a chiudere la porta a chiave, alla sera, quando si andava a letto. Non sono più riusciti, mai più.
Aspettavano sempre il ritorno…
A loro sembrava di chiudere fuori il loro caro.
E poi, sempre, nei nostri poveri pranzi e cene, sempre c’era un piatto in più, un piatto con qualcosa dentro. Noi piccoli non si capiva e si chiedeva: «Ma perché?» «È per quello che deve arrivare».
Così il ricordo è rimasto, questa persona è rimasta viva dentro di voi…
Proprio così: noi non abbiamo una tomba su cui pregare però le nostre preghiere non sono mai mancate. Anche i bambini, i miei nipoti, adesso grandi, i pronipotini di adesso, sanno di questa persona che è morta, ma non è morta. E sopra la credenza c’è un ritratto dove non mancano mai i fiori, e anche i bambini piccoli se raccolgono un fiore «Lo portiamo a Terenzio» dicono, si chiamava così mio fratello.
Questo è un ricordo triste e nello stesso tempo dolcissimo che ci ha fatto capire ancora di più l’affetto dei familiari, l’amore della famiglia. Che ha insegnato, non solo a me che avevo estremo bisogno di imparare a vivere ed accettare, ma anche agli altri… Ha insegnato a vivere serenamente, con onestà, serbando vivissimi questi ricordi che non ci rattristano, perché anche adesso, quando ci troviamo tra fratelli a parlare di queste cose, proviamo solo una grande dolcezza e serenità che ci spinge ad essere sempre in grado di far contenti i nostri genitori, anche se non ci sono più.
A volte per non soffrire cerchiamo di dimenticare, e invece qui tu ci dici che ricordare è più dolce e aiuta molto di più a non soffrire.
È vero, ma non solo nel caso di mio fratello. Anche per i miei genitori, che sono rimasti in casa tutti e due fino alla morte.
Sono morti in casa, una cosa eccezionale al giorno d’oggi, perché tutti muoiono all’ospizio, all’ospedale… Anche i nipotini, che erano piccoli allora, li hanno visti morire, hanno accettato la realtà della morte senza terrore, senza la paura che incute quando non la si conosce. Ecco! Anche questo aiuta, anche questo…
Tante volte vengono qui le ragazze e dicono: «Ricordi il nonno? ricordi la nonna? Cosa faceva, come faceva…». Hanno saputo tenerli vivi, i loro nonni, e questo per me è una immensa consolazione.
È veramente un insegnamento questo che ci stai dando perché purtroppo, come dici tu, oggi invece cerchiamo di allontanare da noi il dolore, dimenticando, non parlando della morte, lasciando che i nostri muoiano lontano da casa, perché temiamo di soffrire troppo.