Abbiamo visto trascorrere un’altra estate. Cosa succede poi?
I primi di settembre sono ripartita ancora per iniziare un altro anno scolastico a Trieste. Un anno pieno di soddisfazioni questa volta, perché mi stavo veramente risvegliando dentro dopo anni di apatia e di sonno interiore.
Sei in grado di dire che cosa ha provocato questo risveglio?
Penso la voglia di studiare, di leggere e di progredire. In altre parole: di dimostrare che potevo anch’io fare qualcosa
Quanti anni avevi allora?
Dieci anni.
Forse incominciava la presa di coscienza dell’io, la consapevolezza del proprio spazio…
Ah, certo, solo che gli avvenimenti dolorosi miei si sono intrecciati con quelli della guerra, i dolori della famiglia con altre cose…
Questo risveglio è stato molto bello per me, anche se è avvenuto durante un anno scolastico terribile, per altri aspetti.
Ero a Trieste, anno scolastico 1941/42 e facevo la quarta elementare.
Ho già raccontato che avevamo un direttore tedesco, cieco per cause di guerra, molto aspro e duro. Quello era il tempo della fame perché tra il ’41 e il ’42 si pativa la fame dappertutto; anche a casa mia c’era poco da mangiare e anch’io in seguito, durante l’estate, ho vissuto questa situazione anche se non posso dire di aver patito la fame perché, in verità, credo di non aver mai avuto davvero fame in vita mia.
Però il problema indirettamente l’ho vissuto. Ricordo che quell’anno ogni volta che si andava a mangiare in refettorio c’erano sempre delle proteste; i ragazzi, in particolare, si mettevano spesso a urlare e allora mandavano a chiamare il Direttore che faceva le sue scenate. Avevano le loro ragioni questi ragazzi perché, nonostante ci fosse poco o niente, il Direttore requisiva le provviste dell’istituto per darle ai soldati; almeno così ci faceva credere. Come risultato quell’anno, su 140 ragazzi, ben 17 sono finiti in sanatorio.
Mi è rimasto impresso un particolare: tra le mie compagne qualche volta facevamo degli scambi, chi aveva qualcosa, un oggettino da niente ma che per lei era importante, lo scambiava con qualcosa d’altro. «Cosa mi dai?» «Tre pezzi di pane».
Eravamo arrivati a questo, era terribile. Il valore di queste cose, cose da niente, era calcolato rigidamente e seriamente in pezzi di pane.
Era la guerra che avanzava e prendeva anche noi.
Notizie non ne avevamo o non erano chiare. Come per mio fratello militare: io quasi sentivo i pericoli che correva, ma non capivo, o capivo molto poco. Anche riguardo a papà, ad esempio, io intuivo che lui era un ricercato, un osservato speciale… sentivo che c’era questo pericolo ma non capivo…
E ancora l’unica cosa che mi consolava era la natura splendida, aprile e maggio a Trieste in Riviera Barcolla; il mare così bello, così quieto e il profumo delle rose e dell’alloro ci aiutava molto.
Ed anche quell’anno lì, nonostante sembra che le cose dolorose non passino mai, alla fine è terminato; è arrivato giugno e ho potuto far ritorno in famiglia.
Lì ho trovato la fame, proprio vera fame; perché noi non avevamo campi, papà faceva il bracciante… E poi, come sempre nei momenti più brutti, l’egoismo si fa sentire di più e chi aveva qualcosa se lo teneva ben stretto.
Eravamo piccoli; avevo altri tre fratelli più piccoli di me, e quello più grande era partito ed era militare. Il cibo veniva consegnato con le tessere e mamma nascondeva il pane che ci veniva assegnato per paura che noi…
Che la fame ve lo facesse mangiare prima del tempo…
Sì, sì… Ricordo un fatto di quell’estate.
Mio fratello Terenzio, il più grande, era militare ad Asti e un giorno, un bel giorno dei primi di luglio, è venuto a casa a salutarci prima di partire per la Russia.
Quando è arrivato mamma non c’era perché era andata a portare da mangiare a papà sui campi, in un paese abbastanza lontano. Allora eravamo ancora piccoli e andava sempre lei, ma più tardi l’abbiamo fatto spesso noi quel lavoro e anch’io, più di una volta, con gli altri fratelli.
Dunque a mezzogiorno è arrivato, all’improvviso, questo mio fratello. Immaginarsi la nostra gioia! Lui si è preso in braccio quello più piccolo, ci ha festeggiati e poi è andato su in stanzetta.
Quando è arrivata la mamma il mio fratellino, quello che veniva dopo di me, sempre così scherzoso, le dice: «Ah, mamma, guarda che è venuto un povero e gli abbiamo dato un pezzo di pane». E lei: «Cosa! Cosa avete fatto, e adesso come faremo…» Pensa che lei non mangiava mai per lasciare tutto a noi. «Cosa avete fatto!» ed è corsa a guardare, infatti il pane mancava! «Sai, quel povero ne aveva più bisogno di noi…» ma ha capito subito, ha preso le scale gridando: «È arrivato Terenzio!» ed è corsa su, gridando come una matta dalla felicità.
È rimasto a casa tre-quattro giorni, e io gli ero sempre vicino, sempre vicino. Mi sembrava, ripensandoci dopo, che lui intuisse che non sarebbe più tornato. Restava delle mezz’ore fermo davanti a qualcosa, quasi volesse imprimersela bene dentro. E parlava tanto con noi e noi, piccoli, bevevamo tutto da lui perché ci faceva vivere e capire tante cose; e allora, proprio, la guerra è entrata in noi.
Sono stati giorni di densissimo affetto, per me, per tutti e, soprattutto, per papà e mamma. Era tutto talmente forte, talmente vivo e intenso, che quei momenti non li ho più dimenticati.
Ricordo ancora quando è partito; mamma non poteva accompagnarlo alla stazione perché c’eravamo noi piccoli a casa e lui, mi dicevano, continuava a girarsi, continuava a girarsi… E la mamma: «Guarda scrivere sai!» «Eh sì, finché potrò…».
Gli ultimi di luglio è partito per la Russia; noi cercavamo di accompagnarlo passo passo attraverso quel poco che riuscivamo a capire, perché non avevamo né radio né niente, però le notizie che ci arrivavano non erano buone.
Lui era sereno nello scriverci…
Quindi vi arrivavano lettere dalla Russia?
Sì, ci arrivavano lettere… Parlava dell’amore della casa, del futuro, della speranza di poter fare qualcosa… Sai che ai militari danno sempre qualcosa, delle piccole somme… Lui metteva da parte tutto e ce lo mandava a casa…
Ha pensato a voi insomma…
Pensava a noi e al futuro: se torno faremo questo, faremo quest’altro… Sognava un avvenire più bello e sereno.
Il ricordo di quei fatti mi si è impresso dentro, con profondità e con dolore…
Anche perché non aveva senso niente. Dopo, quando io sono cresciuta, ho potuto capire tante cose… Morire così, per niente! Perché cosa vuoi, che andassimo a conquistare i quattro punti cardinali? Dove? E mandarli in Russia, con delle scarpe di cartone, si può dire.
Lui era dell’autocentro e ha potuto girare con il camion appena fino a metà ottobre perché poi la neve lo ha bloccato ed è rimasto rinchiuso nelle isbe, le case russe. Quindi era a contatto con le persone di là. Papà aveva una paura tremenda perché proprio in quei giorni un suo cugino era rimasto ucciso a tradimento in Croazia. Ma lui invece ci mandava delle lettere piene d’affetto per i russi, diceva che era buona gente, che si poteva parlare con loro, raccontare , far vedere…
Non li vedeva come il nemico.
No, e ci scriveva di non aver paura perché per causa loro di sicuro non sarebbe morto, per causa loro; era amante anche lui, come mamma, della pesca e ci raccontava «Sono andato a pescare le rane…»
Erano tutte lettere così, serene; e noi le abbiamo tutte qui ancora, le conserviamo tutte, tranne l’ultima di Natale, dolorosissima…
Ma intanto anche per me il tempo passava e a settembre, come tutti gli anni, e arrivato il momento di partire per la scuola; anche se eravamo in quelle situazioni bisognava partire e sono andata, per l’ultimo anno, a Trieste.
Facevo la quinta e avevo una gran voglia di arrivare, e di arrivare bene, perché già sognavo poi di cambiare istituto e andare avanti con gli studi letterari e…
Quindi già facevi progetti
Già facevo progetti… L’anno è trascorso forse con meno difficoltà dell’anno prima, anche per gli altri. Non è che si avesse di più, che il vitto fosse migliorato, però mi sembrava che ci fosse un po’ più di serenità, anche tra gli insegnanti e gli istitutori.
Ed ero a Trieste quando è arrivato l’annuncio della disfatta dell’Armir; ero bambina e per mesi, ogni notte, ho sognato solo fiumi di sangue e di morti. Era proprio diventato un incubo.
Ancora non sapevate nulla del fratello
Non abbiamo mai saputo niente perché ce l’hanno dato per disperso, e basta.
Ho già detto che in quel collegio si dava molta importanza alla politica, ci tenevano informati e ci spiegavano le cose, ma a modo loro.
Vi davano un’informazione un po’ guidata…
Molto guidata, e molto anche sballata. Perché, ad esempio, ci dicevano che i nostri soldati italiani avevano tradito in Russia e quindi…
Le sconfitte non derivano da scelte sbagliate dall’alto; la colpa è sempre dei piccoli.
Ci parlavano della ritirata, di questi mesi a camminare sulla neve… Ci raccontavano, ma quello era vero, che se i nostri soldati italiani si attaccavano ai camion tedeschi venivano loro tagliate le mani. Figurati come io posso aver vissuto queste notizie!
Ad ogni modo poi ho vissuto bene la mia scuola e sono riuscita ad essere la prima come desideravo, avere tutti lodevole. Oggi danno le “A”, allora davano i lodevoli. Li ho avuti in tutte le materie, tranne in ginnastica perché non ho mai potuto muovermi tanto.
Penso sia stata una soddisfazione notevole; mi sembra di ricordare che nel tuo primo o secondo anno di scuola, quando già avevi problemi di vista ma nessuno se ne era accorto, ti prendevano per una bambina che capiva poco.
Sì, è vero. Ma a Trieste ci davano già un’istruzione abbastanza completa. Io ad esempio suonavo già il pianoforte.
Ci facevano lavorare anche se a me non piaceva per nulla; però ho imparato lì a lavorare a ferri e all’uncinetto. Alle elementari ci insegnavano solo quello, ma chi dopo passava alle classi dell’avviamento imparava anche a lavorare a macchina, al macramè… L’insegnante era un po’ dura, ma anche simpatica; ogni tanto si metteva a urlare e ci richiamava e qualche volta, quando forse noi esageravamo un po’, ci declamava dei versi di Baudelaire: «Anima tua contempli….».
Magari erano cose non adatte a noi ma lei voleva insegnarci ad essere corretti, anche noi che non vedevamo.
E così ho imparato a fare dei lavori che allora non mi sono serviti molto ma che più tardi, in anni e anni di letto, sono stati utili a me e agli altri: golfini, maglioni per i grandi, i paltoncini per le mie nipotine…
Un altro bel ricordo di quel periodo è quando siamo stati invitati a cantare a radio Trieste. Pensa che avvenimento importante!
Avevamo un insegnante di musica, cieco, che ci faceva cantare molto, era bravo e gli piaceva musicare le poesie di Tagore. Ce ne ha insegnate parecchie e ne ho anche ritrovate diverse in seguito, leggendo i suoi libri.
Siamo andati quindi alla radio…
Sto pensando che è stato il tuo primo exploit radiofonico!
Pensa, salire le scale, entrare in quelle sale, con tutta quella apparecchiatura… E la gioia di poter cantare così, per tutti quelli che ci avrebbero ascoltato. E ricordo che abbiamo cantato proprio una poesia di Tagore: “Sa nessuno di dove venga il sonno / che aleggia sugli occhi dei bambini…”
E al termine della trasmissione abbiamo invitato gli ascoltatori a scriverci. E nei giorni seguenti abbiamo ricevuto pacchi di cartoline, ma veramente dei pacchi, che ci hanno distribuito e con le quali abbiamo giocato tanto… Ma soprattutto era importante la gioia di sapere che tanta gente ci pensava e si era ricordata di noi in una maniera così carina.
È la cosa che mi è rimasta impressa di più di quell’episodio, assieme a quell’insegnante non vedente che amava tanto la musica e la poesia e sapeva anche trasmetterci la sua passione.
Anche lui probabilmente ha seminato nel tuo cuore l’animo poetico che ti ha portato poi a esprimerti proprio in versi.
Penso proprio di sì.
E rivivo con piacere questi ricordi nonostante la cornice, forse più la sostanza che la cornice, che vivevamo fosse quella della tristezza infinita della guerra, della perdita di mio fratello.
In quei giorni nel ’43 arrivavano i primi superstiti dalla Russia; avevano fatto tutta quella strada a piedi, poi li hanno caricati sui treni e sono arrivati al Brennero dentro a dei vagoni sigillati. Perché non sono stati accolti bene quei pochi che sono tornati.
Sono cose che non si possono dimenticare; forse io le avrò viste in maniera sbagliata, con troppa sensibilità…
Non direi sbagliata; la sensibilità è indispensabile per entrare in quegli avvenimenti.
Sì, però… non indirizzata. Non si potevano esprimere giudizi, né dire chiaramente quello che si pensava. Chi non l’ha vissuta non può sapere cos’è una dittatura; dover stare attento a tutto altrimenti puoi essere segnato e pagare anche per una parola.
E io, non potendo comunicare e confrontare con altri queste cose, le ho serbate dentro di me, con una struggente malinconia.
Il mio soggiorno a Trieste è durato quattro anni e mi ha dato tante cose belle; è passato tanto tempo ma l’istituto Rittmeyer mi rimane ancora dentro al cuore, anche se poi non ho potuto realizzare i sogni che ho coltivato allora.