7 Ansie e paure

Sono tornata a casa per le vacanze estive in mezzo a dei presagi non certo lieti.
Noi vivevamo ai margini degli eventi: non avevamo la radio, non si potevano comprare giornali, che poi c’era solo il quotidiano del regime, ma qualche notizia ci arrivava ugualmente.
Io avevo un altro fratello pronto per la guerra: arriva anche per lui la cartolina e deve partire. E quindi l’angoscia dei miei, la mamma disperata anche perché dell’altro non sapeva più niente e si viveva nel terrore che arrivasse l’annuncio della sua morte.
E ne vedevano andar via un altro.
È partito alla fine di agosto, destinato alla Divisione Julia. Doveva andare a Tolmino, nel Friuli, ma intanto era a Vicenza per l’addestramento.
E nel frattempo arriva l’8 settembre, il famoso 8 settembre del ’43, e lui invece di partire per Tolmino è tornato a casa, come tutti gli altri soldati.

Il famoso “tutti a casa!”. E così lui ha fatto in tempo a rientrare.

Lui è riuscito a rientrare a casa , ma non tutti ce l’hanno fatta perché erano abbandonati, erano lontani, non avevano comandanti, non avevano più niente…
Ognuno faceva quel che voleva. Chi era lontano affrontava disagi terribili, in mezzo ai campi, sempre nascosti. Perché, anche se non c’erano notizie certe, tutti avevano coscienza che girando le spalle ai tedeschi, da alleati li avremmo avuti come nemici.
Dunque mio fratello, per fortuna, è riuscito a tornare a casa, ma è iniziato il suo calvario perché ha dovuto vivere nascosto per un paio d’anni.

Cominciava quindi un’altra serie di avvenimenti difficili che in noi bambini lasciavano altro che segni.
Io vivevo le vicende della famiglia ma nello stesso tempo pensavo a cosa sarebbe stato di me l’anno successivo… Forse era un presentimento perché allora non sapevo che non sarei più potuta tornare a Trieste.

La provincia di Vicenza, che mi aveva fatto cambiare già due istituti, non era propensa a mandarci al Configliacchi di Padova, anche se assai più vicino, perché questo istituto chiedeva una retta più alta e inoltre, essendo indirizzato alla musica, aveva dei corsi di studio più lunghi degli altri. In genere da Trieste si passava a Bologna, o in altri istituti simili, dove in otto anni si concludeva tutto: dopo le elementari c’era l’avviamento professionale ed erano a posto.
Ora non so cosa sia successo, probabilmente è stato anche a causa della guerra, ma alla fine tutti quelli del mio gruppo, quelli della provincia di Vicenza che erano stati prima a Piacenza e poi a Trieste, siamo stati mandati a Padova, all’Istituto Configliacchi di Corso Vittorio Emanuele II.
Nuove compagne, nuovi insegnanti… ma soprattutto un ambiente molto diverso dai precedenti.

Qui c’erano religiose e imponevano la loro disciplina… Disciplina c’era anche a Trieste, anzi… quasi militaresca, ma le suore ci chiedevano cose assurde, che non servivano a niente né ci insegnavano niente. Io lì mi sono trovata molto bene, ma devo dire che a volte le suore facevano proprio delle stupidaggini, purtroppo…
Ma quello che mi è pesato di più è che lì m’hanno iscritta, contro la mia volontà, alla scuola musicale. Frequentavo anche la scuola di cultura, dove si insegnava italiano e qualche altra disciplina in modo da dare un minimo di cultura generale a chi studiava musica e si preparava a insegnare.

Ho conosciuto nuove compagne e ho cominciato a voler loro bene e ad affezionarmi anche alle suore; ho conosciuto gli insegnanti tra cui un maestro di musica molto caro che ho perso proprio quest’anno, e che è venuto qui a trovarmi fino a poco tempo prima di morire.

Ma la guerra non è che ci lasciasse tanto in pace.
In quel periodo si scappava spesso; quando scattava l’allarme si doveva andare nei rifugi comuni, fuori dell’istituto, accompagnate dalle suore. Ma qualche volta succedeva tutto talmente in fretta, sopratutto di notte, che si andava da sole, spaventate e anche piangendo un po’. Si stava lì sotto terra, tra questo odore di cemento, i pianti, le grida dei bambini…
Il 17 dicembre, noi eravamo in attesa di tornare a casa per il Natale, è suonato l’allarme verso mezzogiorno.
C’è stato un bombardamento terribile, mi sembra ancora di sentirlo; siamo rimaste dentro al rifugio per parecchie ore e quando siamo uscite, verso le tre, ci arrivarono le notizie dei morti, tanti morti… La stazione bombardata, interi quartieri di Padova distrutti.
La notizia è giunta a casa mia e il giorno dopo papà è venuto a riportarmi a casa. Ricordo ancora quel lungo viaggio sulla canna della bicicletta… E una nebbia! Un freddo! E tanta paura ancora addosso per il bombardamento del giorno prima, una paura ossessiva che non mi ha mai abbandonata per tutta la guerra.

Lasciando la città speravo di allontanarmi dalla paura degli aerei e dei bombardamenti.
Invece pochi giorni dopo, giusto il giorno di Natale… Quel Natale mi sembra ancora di riviverlo.
Era un giorno bellissimo, meteorologicamente parlando: c’era un bel sole e non faceva neanche tanto freddo.
Ed ecco gli aerei che arrivano. Io ero a casa da sola perché mamma era andata a prendere acqua e il rubinetto dell’acquedotto era piuttosto lontano. La paura che mi ha preso! Non sapevo cosa fare, volevo muovermi… ma dove andavo?
Era il giorno del bombardamento di Vicenza, quanti morti aveva fatto!

La guerra! In quel periodo non avevo posto per altri pensieri, pur essendo una adolescente, con tutti i desideri e i pensieri dell’età.
Ma ero presa solo dalla paura. Speravo, tornando a casa, di non dover vivere la paura della città.
Invece, chissà perché, gli aerei quando andavano a bombardare, sempre passavano sopra a questo cielo, sia che andassero verso il Brennero, sia che andassero verso le più grandi città… E in quel periodo, per fortuna solo in quel periodo, si alzavano altri aerei, dei caccia tedeschi, e iniziavano a combattere proprio qui sopra.

La battaglia sulla tua testa.

Proprio. E dopo qualche giorno dal bombardamento di Vicenza, un giorno, il 28 dicembre era, anche quello un giorno chiaro, bello, limpido, che se non ci fosse stata la guerra sarebbe stato una meraviglia, ecco che arriva una squadra di bombardieri, i caccia che si levano, una battaglia terribile proprio qua sopra.
Sono caduti undici aerei da bombardamento e diciassette caccia. Immaginarsi che lotta. Per me che dovevo ancora riprendermi dalla prima paura è stata proprio la fine, diciamo. Papà era nei campi a lavorare, è tornato in fretta, mi ha preso, e si correva, si correva senza sapere dove….
Dopo mi ha portato a casa; la mamma stava con il fratellino più piccolo e gli dice: «È caduto qui vicino qualcosa ed è andato a finire sotto quella pianta». Allora papà, curioso, si è messo cercare ed ha trovato una scheggia che pesava almeno un chilo. Se prendeva in pieno qualcuno!
E proprio poco lontano dalla nostra casa, vicino alla ferrovia, è caduto uno dei bombardieri; non aveva fatto a tempo a sganciare le bombe e quindi è caduto con tutto il suo carico. Ha fatto una buca che era come un laghetto… E tutte schegge che volavano, di qua e di là. I piloti, che non hanno fatto a tempo ad aprire il paracadute, sono stati i primi morti per la guerra nel paese.

E in quella occasione ho avuto il contatto con la cattiveria umana. È un episodio che mi è rimasto molto impresso. C’erano questi morti vicino all’aereo e la gente povera, chi non aveva niente, provava solo tanta pietà. Ma quelli che avevano l’ingordigia di possedere, eccoli correre per prendere quel poco che portavano addosso: i vestiti, le scarpe… Uno aveva la fede nuziale e gli hanno tagliato il dito per prendergliela. Questo m’ha fatto così male che ancora adesso, quando ci penso, mi viene da ribellarmi contro questa mancanza di pietà verso la morte.
E anche quel giorno lì è passato lasciandomi un ricordo terribile della guerra.

Questa violenza che c’era intorno a voi aveva abbrutito le persone, anche quelle che non avevano partecipato alla battaglia.

Se hai nell’animo certi sentimenti, influiscono anche gli avvenimenti esterni. Pensa che chi ha compiuto quel gesto era una donna. Conosco il nome, il cognome, so chi era.

Il quei momenti veramente una persona non è più un essere umano…

Questo è stato il primo vero contatto diretto con la violenza della guerra, ma poi ce ne sono stati altri di questi avvenimenti.
Però questo episodio è stato il primo, così violento… Io che venivo dall’istituto, che speravo di trovare in campagna un po’ di quiete… no, niente, non c’è stato più verso di potermi riprendere.
Tutta la guerra l’ho passata con questo stato d’animo, con orrore e con terrore.

Gli ultimi giorni del dicembre del ’43 sono stati segnati da questi primi bombardamenti e dai combattimenti aerei sopra di noi; dopo hanno cominciato anche a mitragliare la nostra piccola stazione. C’era una ferrovia percorsa soprattutto da treni merci, e allora spesso mitragliavano. E poiché gli aerei non potevano scendere dalla parte dei colli passavano sempre sopra di noi e i bossoli cadevano sul mio cortile.
Io mi auguravo che ci fosse la nebbia o il brutto tempo perché allora speravo che gli aerei non si alzassero. Poi se c’era nebbia nessuno vedeva gli aerei e gli altri provavano un po’ la mia stessa paura.

Verso la fine di gennaio è arrivata una lettera dall’istituto di Padova; ci annunciano che avevano trovato modo di farci continuare gli studi fuori città. Avevano ottenuto delle sale della villa Camerini di Piazzola sul Brenta e ci dicevano di recarci entro pochi giorni in questo paese. Ero proprio felice L’otto febbraio papà con la sua bicicletta, io sulla canna, con un freddo… siamo andati a Piazzola sul Brenta.
Era una villa meravigliosa. Per me che amo tanto le cose belle è stato un sogno, un evadere dal mio ambiente e dai pensieri che mi opprimevano in quel periodo. E lì abbiamo ripreso a studiare.
Quando venivano gli aerei si andava nel parco. C’era un parco stupendo del quale ho goduto tutte le cose possibili.

Un’oasi, un angolo di paradiso in mezzo a questa violenza.

Ho patito anche tanto freddo… ma la fame no perché il pane riuscivano a darcelo. Poi eravamo ragazzine, non avevo molte esigenze…
Andavamo a studiare anche sotto i portici della villa, vicino all’atrio, tra l’entrata e le scalinate; lì avevano messo un pianoforte. Sai quante volte dovevo mettere la mano sul collo per scaldarmela!
 Però è stata una vita molto bella, a contatto con la natura rigogliosa, tra quegli alti alberi…

E lì son ripresi i miei sogni, anche i primi sogni d’amore…

Ce ne racconti qualcuno?

Sai, sono cose che io ho vissuto sempre con un sentimento di interiorità. Sentivo i pregiudizi che mi circondavano, la mia minorazione considerata quasi un castigo per cui non ci si poteva permettere il lusso di sognare o di pensare
E poi io non potevo parlane in casa perché avevo tutti fratelli e la mamma non aveva la possibilità o la capacità di gestire queste cose. Con papà non avevo tanta confidenza e poi anche loro vivevano in un mondo fatto così. Questa era la realtà.
Ma questo non ti privava di un saluto, un pensiero affettuoso, quel tanto che ti permetteva un po’ di sognare. Perché a dodici, tredici anni puoi solo sognare.
Poi è passato febbraio e marzo, è arrivato aprile.

Io andavo tutte le mattine a messa in parrocchia; non era obbligatorio ma a me piaceva andarci, alzarmi presto, godere l’alba.
Anziché andare per la strada normale si attraversava un viale del parco, tra i ruscelletti, e piccole cascate, gli uccelli, tutto questo mondo… Il mondo mio, quello che tanto amo…

E che a casa non potevi trovare per colpa della guerra..

Ma neppure avrei mai potuto averlo un ambiente così…
E quindi me lo sono goduto tutto.
Tante notti ci portavano giù nelle cantine, anche per precauzione. Non penso che avrebbero bombardato quella villa, però…

Però sappiamo che purtroppo anche delle opere d’arte sono state colpite.

E dunque questo vivere, così sereno, così bello… Ma un giorno ci dicono che dobbiamo tutti partire.
Quelli che dovevano fare gli esami sono stati trasferiti in un convento a Monselice. Quanto a noi, che non avevamo esami da fare, hanno scritto alle famiglie di venirci a prendere.
Ma queste lettere non sono mai arrivate e quindi in sette, otto ragazzine siamo rimaste lì, con una sola suora.

Una sera, verso il tramonto, abbiamo visto arrivare, noi più sentito che visto, i soldati tedeschi e i repubblichini; erano in duemila ed hanno occupato tutta la villa.
A noi hanno lasciato una piccola stanzetta che serviva anche da cappellina per la messa. E allora immaginarsi la paura, non si poteva neppure andare ai servizi, quelli che erano stati adattati apposta per noi.
C’era sempre questo “Raus, raus!” e si scappava, non si sapeva neanche dove e come.
Qualche volta dei soldati italiani venivano a parlarci; erano curiosi di capire come facevamo a leggere e a scrivere. Ma siamo rimaste col terrore per quattro cinque giorni.
Una giorno hanno catturato un militare; era ferito e l’hanno messo proprio lì, dietro la nostra porta. Per tutta la notte abbiamo sentito il lamento di questa persona che non so chi fosse né che fine abbia fatto.

A questo punto le suore dell’asilo di Piazzola hanno avuto compassione di noi e ci hanno ospitato qualche giorno.
Poi, finalmente, sono venuti i miei a prendermi e sono tornata a casa.
Anche se vissuto in tempo di guerra di quel periodo a Piazzola sul Brenta, vissuto a contatto della natura che tanto amavo e amo, conservo in cuore un bellissimo ricordo.

Sono tornata in famiglia senza sapere cosa sarebbe stato di me, dell’istituto, della mia famiglia, di tutto.
Era un periodo dolorosissimo.
Papà aveva scavato una buca in cucina, vicino al focolare, e quando sentiva il pericolo avvicinarsi mio fratello, che viveva nascosto, doveva gettarsi dentro; poi si mettevano sopra delle fascine in modo che non si vedesse nulla se qualcuno entrava in casa.
Lui di solito stava nascosto sui colli, ma ogni tanto veniva da noi e allora bisognava stare tutti all’erta.

Una sera era tornato a casa a dormire e noi eravamo tutti preoccupati. La casa era piccola, aperta da tutte le parti, però c’era l’illusione di potersi nascondere.
Alla mattina abbiamo sentito bussare alla porta, con violenza. Era molto presto ma papà era già al lavoro per sistemare gli animali nella stalla del padrone. Ero in casa con la mamma, i fratellini più piccoli e il fratello che era tornato la sera prima.
E allora io chiamavo: «Mamma, mamma». Ma lei non voleva alzarsi, non voleva andare alla finestra. Sapeva che il figlio non poteva scappare da nessuna parte.
Poi finalmente si è decisa, va alla finestra e chiede cosa vogliono. E loro, così con quell’arroganza che avevano perché si credevano vincitori… «Vogliamo vostro figlio». Lei si mette a piangere, a gridare: «Andate invece in cerca di quello che è rimasto in Russia».
Loro insistevano e lei non è scesa. Mio fratello, me lo ricordo ancora, ha fatto un salto dal letto, è venuto in stanza nostra e non sapeva dove andare, cosa fare, se gettarsi dalla finestra. Ma la casa era piccola, era circondata. Ed erano in tanti: c’erano i carabinieri e i fascisti, perché erano stati loro a fare la spia, non so come siano riusciti a sapere che era a casa.
Allora la mamma ha mandato uno di loro a chiamare papà; è arrivato subito e anche lui ha cominciato a dire, con orgoglio, con forza: «Ma che cosa volete?»
«E avete il coraggio di domandarcelo? Vostro figlio».
E lui a dire che era tutto regolare, che mio fratello si è presentato alle armi la prima volta ma poi non ha più ricevuto nessuna cartolina di precetto… Poi è entrato, la porta era aperta, e l’ha chiamato: «Vieni giù». E mio fratello è sceso.
Come mi sono rimasti impressi quei momenti, quell’angoscia: il dolore di mamma, la forza di papà, lo spavento di quel ragazzo che in fondo aveva solo diciannove anni. Ed è venuto giù.
E anche lui ha ripetuto le stesse cose: «Ne abbiamo già dato uno, mi sono presentato, non ho la cartolina, che cosa volete?».
E allora il maresciallo dei carabinieri, molto buono, dice: «Beh, fate in modo che si presenti lunedì». Era di sabato. Era come dire… fate in modo che scappi!
E uno di quei fascisti che aveva accompagnato i carabinieri, uno che abitava poco lontano da casa mia, fa: «Li portiamo via tutti e due?» E allora mio papà: «No, questa volta non ne porti via neanche uno».
Sono passati due giorni terribili, poi lunedì è venuto il maresciallo a dirci che si doveva nascondere meglio.
Povero maresciallo! L’epilogo è stato dolorosissimo per lui perché in seguito gli hanno fatto la spia, l’hanno portato in Germania ed è finito in forno crematorio.
Ecco, questi sono fatti che la gente spesso non conosce o non ricorda. A volte non vuole ricordare.

Quello che è successo a mio fratello era comune allora, ma questo maresciallo ha dato la vita per salvare qualcuno; e non ha salvato solo mio fratello, ne ha salvati altri. E ha pagato con la vita, in un forno crematorio. Perché sono esistiti davvero questi forni.
Se tutti quanti lo ricordassimo, non per vendicarci o per far solo politica, ma per insegnare a odiare la guerra, per inculcare nei ragazzi quanto orribile è… sarebbe molto meglio.

La guerra è brutta da qualunque parte la si faccia. Sembra che il brutto sia sempre quello degli altri.

No, tutti i crimini sono uguali, e non hanno colore, non hanno nome. Sono crimini, e basta.

Questo è un altro episodio che ho inciso nella mia mente.
Lo racconto spesso ai nipoti; loro hanno avuto la fortuna di avere dei familiari che hanno sempre raccontato e ricordato quello che ci è successo, abbiamo fatto vivere loro la nostra vita, non ci siamo mai vergognati del nostro passato poverissimo, delle nostre sofferenze.
E così abbiamo fatto partecipi anche loro.

Eravamo in estate e la guerra continuava.
Ma cambiavano le persone: non c’era più, non dico fraternità, ma almeno un po’ di partecipazione tra famiglie; ognuno pensava per sé perché il momento era terribile.
Prima ci facevamo compagnia perché passassero i giorni, si scappava assieme quando arrivavano gli aerei. Non per rifugiarsi, perché si scappava sotto un mucchio di fascine, o sotto un pagliaio, che se cascava qualcosa, immaginarsi! Però almeno si era insieme.
Ma da un certo momento, basta. Si preferiva restare a casa propria. Papà aveva scavato in mezzo a un campo una grande buca, poi l’aveva coperta con della legna, per riparare un po’ dalla mitragliatrice, o almeno dalle schegge. Non era niente di speciale ma, almeno psicologicamente, ci sentivamo più sicuri.
E questo era un guaio. La mia paura era così tanta, così tanta che volevo sempre stare lì sotto. Con l’umido, anche quando pioveva, in mezzo all’acqua… volevo stare sempre lì.
Io allora avevo tre fratellini più piccoli, di dieci , otto e cinque anni. Per passare il tempo avevamo delle piccole carte da gioco, che io avevo segnate con il braille, e giocavamo insieme.
Quando arrivavano gli aerei loro, erano bambini, mi dicevano: vanno di qua, vanno di là. Per ridurre almeno un po’ la mia paura bastava anche quello…

In quel periodo i tedeschi che occupavano la nostra zona decisero di costruire un linea anticarro, ossia una lunga fossa per bloccare l’avanzata degli americani. Avevano bisogno di tanta gente per scavare e allora chiamavano tutti e accettavano anche quelli che erano nascosti, i renitenti, qualunque persona si fosse presentata.
E si è presentato anche mio fratello perché non se ne poteva più di quella vita e non si sentiva sicuro; qui non ci sono montagne dove nascondersi.
Per lo meno in quel periodo eravamo un po’ tranquilli; non c’era l’ossessione dei rastrellamenti perché gli uomini si erano già presentati per questo lavoro.
Era una zona tutta di magazzini, qui. Avevano radunato tante cose… I più furbi, non certo noi perché furbi non eravamo, si sono fatti anche ricchi e a loro non è mancato mai niente.