1 Infanzia povera

Acqua Marina – Conversazioni autobiografiche di Urbana Carezzoli

Iniziamo oggi una nuova rubrica: ‘Una vita’. Si tratta della tua vita, Urbana.
Una vita significativa, che può insegnare molto a ognuno di noi. Da che cosa vogliamo incominciare?

Potremo incominciare da: “Cos’è per me la vita”.

Mi pare un buon inizio.

Per me la vita è una cosa meravigliosa, è un dono.
Sono parole che si sentono spesso. Chi mi ascolta e conosce la mia situazione può forse pensare che non sia sincera.
Io amo la mia vita, l’ho amata sempre e spero di amarla fino alla fine perché adesso sto imparando un po’ a capire i disegni che l’Eterno ha stabilito su di me.
Non è un paradosso, anche se quasi non oso dirlo: della mia vita sono felice.
Chi mi conosce e sa che non vedo, che sono da tanti anni in un letto può pensare: «Come si può essere felici di una vita così, così limitata, così piena di rinunce…».
Ma la felicità non è come tante volte la intendiamo. Io intendo la serenità profonda del mio essere che accetta sia le pene che le gioie e cerca di rendere positivo anche il negativo. Se qualche cosa non va, lo stesso non mi sono mai lamentata della vita, anche se intorno a me vedo tanta cattiveria, tanto malessere, tanto buio. Il vero buio. Quello che spesso ci avvolge tutti quanti, non è quello mio, il mio è luce.

Il vero buio è quello che viene dal cuore, non dagli occhi.
La tua affermazione “la vita è bella, mi piace, amo la vita” fa pensare alle immagini della pubblicità: persone senza pensieri, senza problemi, almeno apparentemente. Ma la tua non è certo una vita facile, è piuttosto una vita ’segnata’, potremmo dire.

Incomincerò a raccontare la mia vita partendo proprio dall’istante della nascita: i miei avevano perso un bambino piccolo da poco tempo quando sono nata io e aspettavano un altro maschietto. La mamma ha vissuto tutta la gravidanza con questo pensiero fisso e invece no, sono arrivata io, l’unica femmina in una famiglia di sette figli; ero la quarta e di femmine non ne sono più venute, chissà perché.
Ma nonostante questa prima delusione, l’amore dei miei mi ha avvolta calorosamente.
I miei erano poverissimi, proprio di una povertà che non saprei neanche descrivere. Beh, forse per dare l’idea potrei parlare di servi della gleba.
Abitavano in un casolare fatiscente, un po’ fuori dal paese, isolato.
Sono nata senza assistenza perché la levatrice era lontana e non era neppure delle più affidabili; le piaceva bere e la trovavi spesso in uno stato che certo non era il caso di affidarle un bambino.
Anche per questo in quel luogo si ricorreva spesso alla mammana e, purtroppo, anche i miei si sono rivolti a lei. Non è che mi abbia aiutata tanto bene a venire al mondo, e forse anche da lì sono incominciati i miei guai.

Dei primi mesi io non ho ricordi; la mamma mi diceva che non ho disturbato tanto, non piangevo mai, tant’è vero che veniva spesso a vedere se ero viva o se ero morta.
I miei erano braccianti e, com’era usanza, il giorno di San Martino, l’undici novembre, cambiavano spesso casa e padrone, andavano di qua e di là.
Ci si trasferiva con tutta la famiglia e le misere cose che si avevano; si faceva un contratto con il nuovo padrone che offriva una casa. Se si poteva chiamare casa!

Quell’anno mi hanno portata a Toara, un piccolo paese ai piedi dei Colli Berici. La casa che ci avevano assegnato era la continuazione di una lunga stalla piena di animali. In fondo, oltre una porta, c’erano due vani umidi, senza finestre e con un grande camino. E lì vivevamo noi.
Papà m’aveva fatto una piccola culla con dei pezzi di legno inchiodati alla buona.
Ma di quelle due stanze e del piccolo paese di Toara io conservo dei ricordi molto belli e luminosi: quelli di un’infanzia vissuta in mezzo ai campi, vicino alla natura che amo e che mi ha sempre aiutata a levarmi da tante malinconie. Già da piccola mi piaceva immergermi in mezzo all’erba e starmene lì, beata.
Anche nelle mie poesie descrivo quelle serate passate tutti uniti, con gli altri fratellini, papà e mamma e come ci piaceva contare le stelle.
Ai nostri genitori piaceva parlare e raccontarci tante cose; noi assorbivamo tutto quello che potevano ricevere le nostre piccole menti.

Questa casa che era quasi la prosecuzione di una stalla mi fa venire in mente Gesù Bambino: anche lui è nato in una stalla, anche lui aveva per compagni, così la tradizione ricorda, degli animali. Dal calore animale, dai campi, dalla natura che già allora incominciava a farti riflettere, forse già iniziavano i primi versi…

– Quasi quasi… Anche aiutata dai miei, perché avevano un animo così gentile! Pur essendo vissuti in ambienti squallidi, veramente squallidi, amavano leggere. Non hanno studiato, però sapevano bene leggere e scrivere; soprattutto papà amava la lettura, non aveva possibilità di comprare libri o giornali ma quando gli capitava di avere qualcosa sottomano… leggeva!

Di questi anni vissuti nel paesetto di Toara ricordo soprattutto le feste più belle, il Natale ad esempio. Papà ci faceva le statuine del presepio con l’argilla del fosso perché non era possibile avere altro, ma erano i momenti più belli.
Quando nevicava si facevano le granite. Oppure ci si divertiva a fare degli scivoli perché la casa era sopra una piccolissima collina.
Non avevamo giocattoli ma ci costruivamo da soli tante cose; i miei fratelli avevano una grande fantasia e ci si divertiva un mondo…

C’era una minuscola collinetta che in paese chiamavano il monte bello, il Monticello; lì i fratelli costruivano delle specie di carretti, con tre ruote e un manubrio, lì facevamo queste corse. Chi arrivava prima… e arrivavamo sempre prima perché non ci si fermava più! E tanti altri giochi inventavamo; i miei fratelli erano molto ingegnosi, ma anch’io…
E poi c’erano sempre il papà e la mamma, così attenti, così premurosi; noi capivamo che non potevano darci di più e sentivamo tutto il loro amore.

Parlavo prima della mia culla; più tardi m’hanno comprato un letto. Allora, durante il fascismo, quando una donna aveva il sesto figlio riceveva un premio dallo stato e con quei soldi mi hanno comprato un lettino. Anche di quello ho nostalgia, a volte: il primo lettino!

 Un vita molto semplice, fatta di poche cose e piccole felicità. Inizia da questa scuola il tuo amore per la vita?

Ah sì! Ho avuto lì i primi insegnamenti, quelli autentici che non si dimenticano più. Sono ricordi che in me si sono stampati proprio dentro e anche adesso, raccontandoli, sorrido contenta perché rivivo la felicità di allora e le piccole gioie.

Le sere d’inverno, intorno al fuoco, ci raccontavano le fiabe e ogni sera era una diversa perché avevano fantasia e andavano a gara… Una sera toccava al papà, poi il giorno dopo la mamma continuava quella del giorno precedente, poi ancora il papà. Dopo noi ci si addormentava sognando tante belle cose; quelle che non potevamo avere nella realtà, ma che la fantasia ci donava tutte.

La famiglia era povera ma ricca di amore che, con il suo calore, faceva dimenticare altre mancanze.
È un po’ così, Urbana?

Sì, proprio così: l’amore!

Noi, per fortuna, riuscivamo ad avere in quel periodo un po’ di polenta la sera, e papà e mamma ci raccontavano dei tempi loro, quando i genitori raccontavano ai figli tante storie inventate solo per farli addormentare senza mangiare. Facevano credere che sotto la cenere ci fosse il famoso schizzotto: chiamavano così una specie di pane che, non avendo il forno, veniva cotto così, proprio sul focolare. Parlavano e parlavano di questo pane finché i bambini si addormentavano… E quindi anche quella sera passava senza la cena.

Noi eravamo fortunati perché facevamo la nostra polenta… Di questo ho un ricordo molto bello: la mamma metteva il paiolo sul focolare e incominciava a farinare, così si diceva, con noi tutti intorno, e intanto ci insegnava le preghiere. Tante volte dal camino, soprattutto nelle sere più umide, pioveva giù della caligine e cadeva proprio nel paiolo. Ma anche questo dava sapore!
E si giocava a chi era più svelto a prendere il mestolo, anzi il mestone, quello che lei adoperava per stirare la polenta. E c’era chi meritava di mangiare le croste che toglievamo dal paiolo e che erano davvero squisite!

I miei ricordi di allora sono dei frammenti, come dei lampi che mi sono rimasti impressi nella mente.
Del paese rivedo, ad esempio, la fontana in mezzo alla piazza, un grande albero, il lavatoio…
Di solito prendevo una stradina che portava al cimitero: era un cimitero piccolo, ordinato, carino si potrebbe dire, con pochi morti perché il paese era piccolo. Di solito il cimitero spaventa i bambini, oppure non ne parlano mai, o restano lontani… invece io ci andavo e mi incollavo alle sbarre del cancello.
Quando arrivavo lì, al cimitero, il sentiero finiva e mi inoltravo nei campi per una capezzagna, passavo vicino ad una casa e attraversavo un fosso saltellando su delle pietre… Era divertente, anche!

Ed entravo nei campi che erano di proprietà del conte Piovene, parente dello scrittore, e lì mi sentivo nel mio regno.
Allora non capivo il significato della povertà e della ricchezza, della differenza tra noi e il padrone.
Io ero in quei campi, immensa come la natura, in quella natura che sentivo mia… ed ero felice. Felice è la parola giusta anche se ho quasi paura di nominarla. Ero proprio felice!

Mi perdevo, mi sentivo immensa anch’io, anche perché sapevo che lì c’erano i miei cari, che lì potevo essere libera, libera nel vero senso della parola, in questa campagna grande, tutta mia; che credevo tutta mia e invece non possedevo neanche un filo d’erba! Però, ecco, i fossi con l’acqua ancora limpida, con l’odore, proprio l’odore, di erba bagnata e gli alberi grandi, da frutto e non.. E poi i lavori che accompagnavano tutti i nostri giorni.

Di quel tempo ricordo bene la chiesa di Toara, perché poi non ne ho viste altre di chiese
Era una piccola chiesetta di campagna. Mi è rimasto impresso il confessionale, la disposizione delle sedie, l’altare piccolino…
Allora la potevo vedere mentre poi ho sempre immaginato tutto il resto. E lì ho fatto la Prima Comunione

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