Per
i ciechi del Togo
Kekeli Neva
Bollettino del Gruppo San Francesco d'Assisi di Barbarano Mossano
http://www.grupposanfrancesco.org
Luglio 2020
Sommario
1 Urbana: siamo sempre accanto a te, per i
bambini ciechi del Togo che portavi sempre nel tuo cuore - di Flavio Fogarolo
2 In breve, la storia di Urbana raccontata con le
sue stesse parole: una vita complicata che ha molto da insegnarci
3 Urbana nel ricordo di due persone che per tanti
anni le sono state strettamente vicine: le cognate Antonia e Bertilla
4 «Abbiamo voluto che ci facesse da testimone di
nozze e l'unica soluzione era sposarsi davanti al suo letto» - di Luigina
Vigolo
5 Il mio ricordo di Urbana Carezzoli
- di Giovanna Bogoni
6 Ricordo di una riflessione sulla famiglia e di
una lezione di vita -di Alessandra Carezzoli
7 La Zia è sempre con noi - di Emanuela Carezzoli
8 Quanta nostalgia di stare appesa al tuo ramo! -
di Rita Padrin
9 Il suo entusiasmo contagioso - di Angelica
Pozza
10 Urbana e la poesia - di stefania
Pedersini
11 Otto poesie di Urbana Carezzoli
12 «Ti ringrazio tanto Urbana, anche per gli
scossoni che mi hai dato!» - di padre Fabio Gilli
13 Essi sono come me! - di Urbana Carezzoli
14 Una benedizione chiamata Urbana - di Moïse Tchapo
15 Emergenza Covid
anche in Togo: piano piano si riparte e riaprono tutte le nostre scuole
16 Completati gli interventi chirurgici per la
piccola Jade: ora si può essere ottimisti!
17 Pronto il nuovo centro oculistico, ma a causa
del virus si parte a ottobre
18 Intestazione e informazioni
Articolo numero 1
Ricordiamo, a vent'anni dalla sua scomparsa (22 luglio 2000) Urbana Carezzoli, fondatrice della nostra associazione.
Urbana: siamo sempre accanto a te, per i bambini ciechi del Togo che portavi
sempre nel tuo cuore
Vale la pena conoscere questa donna, cieca e inferma, stabilmente a letto per
quaranta anni, che ha saputo smuovere amici e conoscenti per aiutare i bambini
ciechi di un paese lontano, che a malapena prima aveva sentito nominare, e alla
fine della sua vita ha fondato una associazione affinché tutto questo non
finisse con lei
È dedicato a Urbana quindi questo giornalino, a venti anni dalla sua morte: era
il 22 luglio del 2000. Un numero speciale per le dimensioni, sempre modeste ma
insolite per noi e per i nostri mezzi, ma soprattutto per il coinvolgimento di
tante persone che l'hanno conosciuta e apprezzata, e che ci hanno dato la loro
testimonianza.
Quando Urbana ci ha lasciati, ci siamo chiesti come avremmo potuto continuare
ad aiutare quei bambini senza di lei. Sembrava un'impresa disperata: era lei
che teneva in piedi tutto, che sapeva convincere, raccontare, entusiasmare...
Le persone andavano a trovarla, parlavano con lei, le aprivano il cuore, poi le
lasciavano un'offerta ("Per i tuoi bambini!") e se ne andavano
contente.
Abbiamo subito aperto un conto postale e fatto stampare i bollettini, poi
abbiamo scritto agli amici di Urbana: «Adesso, se volete continuare ad
aiutarci, dovete andare in posta». Ma non era certo la stessa cosa!
Temevamo che in posta non ci andasse nessuno, e invece ci sono andati tutti:
nessun sostenitore di prima si è tirato indietro. E da lì abbiamo capito che il
nostro impegno poteva continuare perché quello che Urbana aveva costruito era
più solido che mai.
Anche per me è il momento degli anniversari perché, grazie alla fiducia dei
soci, sono vent'anni che sono presidente, al posto suo. Non ho mai pensato di
poter fare quello che faceva lei e il mio impegno più grande, da allora, è
stato quello di far continuare quello che lei aveva costruito.
Sono stato 11 volte in Togo e ancora adesso, ogni
volta che torno a casa, immagino di salire da lei, al primo piano, sedermi
vicino al suo letto e raccontarle quello che ho visto laggiù. Nonostante tante
difficoltà, credo che quello che abbiamo fatto in questi anni le sarebbe
piaciuto davvero.
Flavio Fogarolo
Articolo numero 2
In breve, la
storia di Urbana raccontata con le sue stesse parole: una vita complicata che
ha molto da insegnarci
Qualche stralcio dalle interviste autobiografiche registrate per Radio Insieme
tra il 1996 e 1997 e trascritte dalla nostra associazione nel 2001, l'anno dopo
la sua morte, in un libro, dal titolo "Acqua Marina".
La vita di Urbana Carezzoli (1930-2000) non è stata
per nulla facile: a 6 anni perde rapidamente la vista e si trova completamente
cieca, verso i 30 una malattia la costringe stabilmente a letto e passerà così
gli ultimi quarant'anni della sua vita.
Anche in
un'infanzia estremamente povera Urbana sa vedere le cose positive della vita:
gli affetti familiari, prima di tutto, e la gioia che danno le cose semplici,
quelle che non costano nulla, come la natura che ci circonda.
I miei erano
poverissimi, proprio di una povertà che non saprei neanche descrivere. Beh,
forse per dare l’idea potrei parlare di servi della gleba.
Erano braccianti
e, com’era usanza, il giorno di San Martino, l’undici novembre, cambiavano
spesso casa e padrone, andavano di qua e di là.
Ci si trasferiva
con tutta la famiglia e le misere cose che si avevano; si faceva un contratto
con il nuovo padrone che offriva una casa. Se si poteva chiamare casa!
Quell’anno mi
hanno portata a Toara, un piccolo paese ai piedi dei Colli Berici. La casa che
ci avevano assegnato era la continuazione di una lunga stalla piena di animali.
In fondo, oltre una porta, c’erano due vani umidi, senza finestre e con un
grande camino. E lì vivevamo noi.
Ci sentivamo
fortunati perché facevamo la nostra polenta… Di questo ho un ricordo molto
bello: la mamma metteva il paiolo sul focolare e incominciava a farinare, così si diceva, con noi tutti intorno, e intanto
ci insegnava le preghiere. Tante volte dal camino, soprattutto nelle sere più
umide, pioveva giù della caligine e cadeva proprio nel paiolo. Ma anche questo
dava sapore!
E si giocava a
chi era più svelto a prendere il mestolo, anzi il mestone, quello che lei
adoperava per stirare la polenta. E c’era chi meritava di mangiare le croste
che toglievamo dal paiolo e che erano davvero squisite!
I miei ricordi di
allora sono dei frammenti, come dei lampi che mi sono rimasti impressi nella
mente.
Del paese rivedo,
ad esempio, la fontana in mezzo alla piazza, un grande albero, il lavatoio...
Ricordo bene la
chiesa di Toara, perché poi non ne ho viste altre di chiese. Era una piccola
chiesetta di campagna: allora la potevo vedere mentre poi ho sempre immaginato
tutto il resto. E lì ho fatto la Prima Comunione
E la Prima
Comunione è il primo grande ricordo "al buio" di Urbana che in quel
periodo diventa cieca.
Il secondo anno
delle elementari, dopo Natale, ho cominciato ad avere mal di testa e i miei si
sono preoccupati. Si sono accorti loro che io mi avvicinavo un po’ troppo per
guardare le cose; mi hanno portata dal medico, il medico generico, e lui non
potendo far niente mi ha mandato da un oculista a Vicenza.
Mi ha fatto
ricoverare e subito ha incominciato a operarmi, prima a un occhio, dopo
all’altro e questa è stata una esperienza dolorosissima… Dolorosissima perché
lontana dal mio mondo, dal mio regno, dalla mia felicità. Lontana anche dai
miei, perché allora le regole ospedaliere erano molto diverse e mi potevano
vedere solo due volte alla settimana; guai se portavano una
caramella, era proibita anche quella.
Le prime due
operazioni non sono state sufficienti, e quindi me ne hanno fatte altre due.
«Ma che cosa
pretendete -rispondevano- con quello che ha, con quello che ha avuto…»
Dopo quattro
operazioni decidono di farne un’altra, la terza sullo stesso occhio. Mi
tenevano sempre bendata e mi legavano anche, perché non riuscivo a stare ferma.
Quando è arrivato
il momento di togliere le bende mi sono accorta di non vedere più nulla con
quell’occhio. E non ho più visto niente neppure dopo.
Poi i miei mi
hanno portato a Padova, con di quei sacrifici che ancora adesso cerco di
indovinare e mi chiedo come han fatto a procurarsi quei soldi, come hanno
fatto! A Padova hanno constatato che era troppo tardi e non si poteva fare
niente… Hanno tentato la sesta operazione e all'occhio destro e per un po’ di
anni la luce, solo la luce, sono riuscita a vederla.
E qui finisce la
storia della mia cecità, perché poi da quel momento io non ho avuto più
speranze, e i miei neppure. Non era neanche il caso di andare di qua e di là a
provare e riprovare…
Per Urbana
comincia la stagione della vita in collegio presso gli istituti per non
vedenti, alcuni anche molto lontani.
Della prima
esperienza a Piacenza conserva un ricordo per nulla positivo, ma vivissimo è il
momento in cui torna a casa, felice di poter mostrare alla mamma quello che ha
imparato a fare la sua bambina cieca.
I miei abitavano
in un nuovo paese, a Lovertino, perché nel frattempo avevano dovuto fare di
nuovo San Martino.
A Vicenza è
venuto papà a prendermi. Era sera tardi quando sono arrivata nel nuovo paese;
poi c’era anche un bel po’ di strada da fare a piedi lungo il canale Bisatto.
Poco lontano da
casa mi aspettava la mamma con il bambino piccolo, il fratellino, e piangeva
perché lei non riusciva a rassegnarsi che io avessi perso la vista. Piangeva
sempre e andava da un prete all’altro per trovare conforto.
Mi viene
incontro, con questo pianto disperato, e io bambina: «Ma perché piangi, ma
perché piangi, se tu sapessi quante belle cose ho imparato». E allora calma, ma
tutta orgogliosa, ho cominciato a leggere con le dita, a dimostrare che ci
sapevo fare. Forse da lì incomincia un po’ la mia ripresa.
Ricordo
l’istituto di Piacenza con pena ma anche con gratitudine, perché lì ho imparato
a leggere e a scrivere in Braille.
Arriva la guerra
a sconvolgere la casa di Urbana e il pensiero più triste è ora per il fratello
più grande, Terenzio, partito per la campagna di Russia e mai tornato.
E così anche la fine della guerra porta amarezza.
La guerra era
finita, ma di gioia non ce ne poteva essere ancora. E questo valeva soprattutto
per noi.
Avevamo perso una
persona molto cara e di quel periodo, quando tutto sembrava tornare normale,
rivivo soprattutto le angosce dei miei genitori, qualche volta addirittura le
allucinazioni di mamma.
Noi eravamo
piccoli, le stavamo vicino col nostro dolore, senza parlare, senza dire… Ma lei
ci interrogava tutti, e pregava, e scriveva a Padre Pio… Di tutto ha fatto, di
tutto.
Vivevamo con il
ricordo del fratello non più tornato, con il dolore e la voglia dei miei di
tenerlo ad ogni costo vivo. Ci parlavano in continuazione di lui e ci
raccontavano quello che noi non avevamo potuto vivere con lui.
Papà e mamma non
sono più riusciti a chiudere la porta a chiave, alla sera, quando si andava a
letto. Non sono più riusciti, mai più.
A loro sembrava
di chiudere fuori il loro caro.
E poi, sempre,
nei nostri poveri pranzi e cene, sempre c'era un piatto in più, un piatto con
qualcosa dentro. Noi piccoli non si capiva e si chiedeva: «Ma perché?» «È per
quello che deve arrivare».
Noi non abbiamo
una tomba su cui pregare però le nostre preghiere non sono mai mancate. Anche i
bambini, i miei nipoti, adesso grandi, i pronipotini di adesso, sanno di questa
persona che è morta, ma non è morta. E sopra la credenza c'è un ritratto dove
non mancano mai i fiori, e anche i bambini piccoli se raccolgono un fiore «Lo
portiamo a Terenzio» dicono.
Urbana termina
gli studi e si diploma in pianoforte a Padova, ma si fanno sentire,
gradualmente ma sempre più insistenti i problemi di salute, con tanti ricoveri
in ospedale e la possibilità di muoversi che diminuisce sempre più. Finché nel
1960, a 30 anni, Urbana si trova stabilmente immobilizzata.
Per me cambiava
completamente tutta la vita; io ero costretta su un letto e quando si è
costretti su un letto che cosa si può fare?
Non posso mica
tutto il giorno star lì ad ascoltare le canzonette, oppure… non lo so. Allora
cosa devo fare? Devo riempire tutta la mia vita, ogni piccolo spazio, non dare
alla noia la possibilità di entrare, perché la noia è una bruttissima malattia.
E quindi tornata
dall’ospedale con questa convinzione di dover cambiare tutto mi sono detta: che
cosa devo fare prima di tutto? Riempire ogni spazio.
Ho incominciato
ad ascoltare le cose più belle della radio, e ho ripreso a leggere quasi con
accanimento, come mi succedeva prima.
Ho incominciato
ad aiutare i bambini che andavano a scuola, perché ai nipoti qui in casa ho
insegnato io a tutti a leggere e a scrivere. E dopo venivano a studiare da me;
ripetevano la lezione, mi davano tanta soddisfazione perché quando riuscivano
bene a scuola mi sentivo orgogliosa.
Ero sempre
indaffaratissima, ma non riuscivo a dire a nessuno: «Non ho tempo». Non avevo
neppure il coraggio di dirlo. «Figurati se ci credono!» mi dicevo.
Urbana amava
molto i rapporti sociali e quando ha scoperto il mondo dei radioamatori è
riuscita a tessere con questo strumento una rete di amicizie, anche molto
profonde, protratte poi negli anni.
Per entrare in
questo ambiente per prima cosa bisognava scegliere un nome. Ne avevo tanti in
testa, ma poi è prevalso Acqua Marina.
È un nome che
ricorda il gioiello, la pietra preziosa azzurra che mi piace tanto. Ma anche
l'acqua del mare… Mi piaceva molto questa espressione: «La vita, come l’acqua
del mare, diventa dolce elevandosi verso il cielo». È una frase bellissima che
mi è rimasta talmente impressa che la scrivevo spesso.
Ricordo i primi
contatti, la curiosità… sai, senti una voce, è solo una voce e cerchi di
immaginarti la persona che c'è dall’altra parte, e quindi qualche domanda, cosa
fai e cosa non fai, e l’età che poi nessuno dice… Mi ricordo che ha chiesto la
mia professione e a me, spontaneamente, mi è venuto di rispondere: «Ah, io
faccio una professione di lusso!».
Lui naturalmente
non capiva e allora ho spiegato: «Beh, di professione sono ammalata. È una
professione difficile la mia perché devi convivere con i tuoi mali e stare
accanto a tante altre persone» Ecco perché professione di lusso.
Successivamente
altri due grandi impegni sono entrati nella vita "indaffaratissima"
di Urbana: le poesie e il Togo. Ne parliamo più avanti.
Didascalia della foto: Della casa dell'infanzia di Urbana resta solo questa
foto che ha fatto da copertina a uno dei suoi libri di poesie: "Illusioni
dolcissime, inquiete sensazioni" (1998): O casupola delle mie fiabe, /
dove, assai presto, ho conosciuto / ingiustizie, dolori e miseria, / ma dove,
con chiarezza, ho appreso / pure gli insegnamenti preziosi / d'un'umile e
cosciente povertà.
I magine della copertina del libro Acqua MArina. Didascalia:
Le testimonianze di Urbana raccolte in questa pagina sono tratte dal volume
Acqua Marina che il Gruppo San Francesco d'Assisi ha pubblicato nel 2001,
l'anno dopo la morte di Urbana, trascrivendo una serie di interviste
radiofoniche condotte tra il 1996 e il 1997 da Gabriella Pellegrini per Radio
Insieme.
Articolo numero 3
Antonia e Bertilla sono le cognate di Urbana, mogli rispettivamente dei suoi
fratelli Orazio e Stefano, che hanno condiviso strettamente con lei i
quarant'anni di questa sua particolare vita da inferma.
Bertilla ricorda che ha smesso di camminare poco dopo il suo matrimonio per
cui, di fatto, da quando abita in questa casa l'ha sempre vista a letto.
Quaranta anni di giornate fatte di incombenze quotidiane, di cura e assistenza,
dalla pulizia ai pasti, a tutto il resto. Con tanti ricoveri in ospedale,
soprattutto nel primo periodo, e di quelli se ne occupava sempre Antonia perché
Bertilla aveva le bambine piccole e doveva restare a casa.
Antonia aveva anche il compito di curare i testi delle sue poesie che per tanti
anni Urbana ha raccolto con cura e precisione assoluta, con attenzione a tutti
i dettagli, punteggiatura e versi, che lei non vedeva ma sapeva farsi ben
raccontare. Solo verso il 1990 si è fatta coraggio e ha cominciato a
pubblicarle, spinta anche dalla voglia di aiutare in questo modo i bambini
ciechi del Togo di cui aveva cominciato ad occuparsi.
I primi anni, ricordano, non veniva tanta gente a trovarla: oltre ai parenti,
solo alcune persone che aveva conosciuto in ospedale, infermiere e pazienti,
soprattutto di Lonigo, poi ex compagni e insegnanti dell'istituto per i ciechi Configliacchi di Padova, e pochi altri. È stato quando è
entrata nel mondo dei radioamatori, dei CB come si diceva, che la sua rete di
conoscenze si è molto estesa.
Ricordano Antonia e Bertilla: «La sua festa del 1985 ha fatto confluire qui in
casa, o meglio giù in cortile perché dentro non ci sarebbero mai state,
tantissime persone che Urbana ha chiamato per festeggiare i 25 anni della sua
malattia. Come diceva lei: le sue nozze d'argento. In quel periodo qui in casa
era tutto un susseguirsi di compleanni, matrimoni, le nostre nozze d'argento, e
Urbana ha voluto festeggiare a modo suo i 25 anni di vita a letto».
Molte delle persone che le erano vicine allora saranno poi quelle che le
daranno la forza di impegnarsi, qualche anno più tardi, nell'impresa a sostegno
dei ciechi del Togo alla quale avrebbe dedicato, con convinta passione,
l'ultimo decennio della sua vita.
«Qui in casa - ricordano Antonia e Bertilla - si può dire che in quel periodo
non si parlava altro che del Togo. È venuto varie volte Padre Fabio Gilli, che
rimaneva con noi alcuni giorni, diceva la messa in camera di Urbana e passava
ore con lei. Poi venivano le suore del Togo, le direttrici suor Delphine e suor Aimée, la generale del loro ordine suor
Stephan… Loro non sapevano neppure una parola di italiano e noi neppure una di
francese, ma in qualche modo ci si intendeva».
Quando arrivava il momento delle lotterie era una frenesia unica. Urbana le
tentava tutte per raccogliere fondi per i bambini ciechi del Togo e si era
buttata con tutto il suo entusiasmo anche in questa avventura, raccogliendo i
premi e organizzando la vendita dei biglietti. Già la prima edizione è stata un
successone, con tantissimi bei premi in palio, tutti donati, e vendita dei
biglietti al 100%. Urbana, come sempre, era super meticolosa e voleva che tutte
le matrici dei biglietti da estrarre fossero perfettamente arrotolate e fissate
con un anellino: un lavoro fatto tutto a mano, che richiedeva tantissimo tempo.
Suo fratello Stefano aveva adattato un cestello da lavatrice, di quelli con lo
sportello di lato, per costruire un'urna girevole per estrarre i numeri come si
deve! Naturalmente l'estrazione si faceva in camera di Urbana. Veniva anche un
funzionario dell'Intendenza di Finanza che era abituato a lotterie fatte nelle
sagre di paese e rimaneva alquanto stupito da una scena del genere. Sono
ricordi che ora fanno sorridere, ma la cosa più bella è che questa lotteria,
con estrazione il giorno di Santa Lucia come voleva lei, si tiene ancora oggi,
trent'anni dopo, e anche in questo modo si continua ad aiutare i bambini ciechi
del Togo. Non arrotoliamo più i biglietti, come voleva Urbana, ma facciamo
l'estrazione velocemente con il computer, ma questo lei non lo sa!
La camera di Urbana era il centro di vita di tutta la grande famiglia Carezzoli, soprattutto dei bambini che salivano
regolarmente da lei per fare i compiti, ma non solo. «Lei ha fatto da maestra a
tutti i nostri figli», ricordano.
Sempre era attenta alle feste: Natale o Befana, anche nei momenti più difficili
qualcosa per i bambini ci doveva sempre essere.
E parlando delle ricorrenze, a cui lei teneva tanto, alla fine della
conversazione il ricordo arriva a quella notte in cui Urbana se n'è andata.
Era un pezzo che stava poco bene, i suoi problemi al cuore si facevano spesso
sentire.
Racconta Antonia: «La sera prima, casualmente, si sono ritrovati qui tutti i
nipoti e se ne sono andati, più meno verso le undici e un quarto. Urbana si
preparava per la notte ma non si sentiva bene e ha chiesto di chiamare la
nipote Isabella». Era lei che interveniva in questi casi, con i farmaci che le
erano state prescritti per le situazioni di emergenza. «Isabella ha misurato la
pressione e le ha dato queste medicine. Poco dopo mezzanotte è entrato in
camera suo fratello Orazio e lei subito gli ha augurato buon compleanno. Il 22
luglio, infatti, lui compiva gli anni e lei se n'è ricordata anche in quella
circostanza». Non se ne dimenticava uno, di compleanni!
Dopo qualche ora, Urbana è morta.
Nella foto: Urbana con due nipoti - 1989
Articolo numero 4
«Abbiamo voluto che ci facesse da testimone di nozze e l'unica soluzione era
sposarsi davanti al suo letto»
Luigina e Carlo
hanno celebrato il loro matrimonio nella camera da letto di Urbana per coronare
così, in un momento di festa, un profondo rapporto di amicizia
Nel febbraio del
1971 stavo facendo il tirocinio in ospedale a Vicenza e sentivo le infermiere
che nominavano spesso questa Urbana, che era stata ricoverata più volte da
loro. Ne parlavano in modo molto particolare e mi hanno fatto venire una gran
voglia di conoscerla.
Così è stato e da
allora Urbana è entrata a far parte della mia famiglia e la mia vita è cambiata.
La sua casa,
merito anche dei fratelli e delle sue cognate, Bertilla e Antonia, era sempre
aperta a tutti, dai bambini, ai giovani, alle coppie, ma anche nonni, preti o
medici. Tutti andavamo a trovarla, non certo per consolare un'inferma ma prima
di tutto per stare bene noi stessi, chiedere consigli e ascoltare le sue
parole, sempre speciali.
Quando io e mio
marito Carlo ci siamo fidanzati lei ci ha seguito con trepidazione e affetto,
così abbiamo voluto che fosse lei a farci da testimone di nozze. L'altra
testimone era Marisa Chiarini, di Roma, non vedente anche lei, compagna di
Urbana fin dai tempi della scuola e ora carissima amica anche nostra.
Così il 29 maggio
del 1975 ci siamo sposati nella sua camera da letto, con tre preti. Lo spazio naturalmente
era molto ristretto ma ci siamo stati: sposi, testimoni, altare… Chi non è
riuscito a entrare ha seguito la cerimonia dal corridoio, o come poteva.
È stata una
cerimonia intima ma bellissima che porterò sempre nel cuore. E che penso anche
gli altri invitati non dimenticheranno facilmente.
A Urbana del resto piaceva festeggiare con gli altri: nel 1985
ha invitato tutti gli amici per celebrare i 25 anni della malattia che l'aveva
costretta a letto e fare una festa di ringraziamento alla vita; eravamo più di
250 persone, c'è stata la messa in cortile con lei in una barella e poi
stuzzichini per tutti.
Io quando parlo
di Urbana dico sempre che sono stata fortunata nel conoscerla perché so per
certo che ho conosciuto una santa.
Luigina Vigolo
Didascalia della
foto:
La cerimonia di
nozze di Luigina e Carlo nella camera di Urbana, 29 maggio 1975. Poiché
entrambe le testimoni erano non vedenti, sono state assistite per la firma
degli atti da Orazio, fratello di Urbana (a sinistra) e Ugo, marito di Marisa
(a destra).
Cara zia,
scriverò di te come sono abituata a fare, parlandoti direttamente con la mente.
Dal momento in
cui sei mancata, incessantemente confido a te i miei pensieri più intimi. Avevo
solo sette anni quando per l'ultima volta ho udito la tua voce, ho osservato il
tuo viso, ho ricevuto una tua carezza. La pace vissuta mentre stavo
rannicchiata al tuo fianco ha un sapore d'eternità che ancora oggi chiudendo
gli occhi mi sembra di ritrovare.
La paralisi, la
cecità, la malattia: niente ha saputo limitare l'amore di cui sei portatrice.
Quell'amore ti ha resa capace di proiettare la tua figura, di allungarti,
dilatarti ed espanderti, di muovere e abbracciare il mondo intero da una
piccola stanza. Il sentiero che hai tracciato è ispirazione per chiunque venga
sfiorato dal vento fresco delle tue parole, custodite in puntini impressi su
carta, preziosi come perle.
Poesia è ciò che
sei e la tua vita è dono di una leggerezza inarrivabile. Io, frutto del tuo
albero, maturando mi son lasciata cadere sul prato, ma quanta nostalgia di
stare appesa al tuo ramo! Ti dirò sempre grazie, per aver baciato la mia anima.
Non dirò mai mi manchi, perché non mi hai lasciata. Ti sentirò ancora in ogni
attimo, perché sei infinita.
Rita Padrin
Nella foto: Rita
con Urbana
Articolo numero 9
Il suo entusiasmo contagioso
Due giovani genitori si trovano con una bambina cieca e nello sconforto
incontrano Urbana. Così la ricorda la bambina di allora.
Io e i miei
genitori abbiamo conosciuto Urbana quando io avevo due anni grazie a suor
Mafalda, una religiosa che alla fine degli anni ’80 prestava servizio a
Campiglia dei Berici. Lei era certa che Urbana, con il suo carisma e il suo
amore per la vita, pur nella sofferenza e nelle difficoltà, avrebbe potuto
essere di grande aiuto a questa giovane coppia di genitori di una bambina non
vedente.
La mia mamma ricorda che durante il loro primo incontro Urbana le raccontò
della festa che aveva fatto qualche anno prima per celebrare i 25 anni da
quando era stata costretta a letto: ricorda ancora lo stupore e la grande
ammirazione che ha provato nel vedere questa donna che amava la vita a tal
punto da riuscire a trovare il bene anche nella sofferenza. Le parlò anche dei
bambini ciechi del Togo, che amava come se fossero figli suoi (infatti per i
bambini del Togo lei era “maman Urbana”), di padre Fabio e delle iniziative che
metteva in atto per sostenere la scuola.
Suor Mafalda aveva visto giusto: infatti, dopo quel primo incontro, la casa di
Urbana è diventata per noi un punto di riferimento importante. Andavamo spesso
a trovarla, come si va a trovare un parente stretto. Difficilmente si restava
da soli, perché spesso c’era qualcun altro, o qualcuno le telefonava per
salutarla o per chiederle un consiglio o una parola di conforto, e lei era
sempre disponibile per tutti, anche quando il solo parlare la affaticava
tantissimo a causa della malattia che nel frattempo si era aggravata.
Urbana diceva che per lei ero come una delle sue nipotine e io l’ho sempre
considerata una zia, tanto che la chiamavo “zia Urbana”.
Mio papà ricorda che io stando in piedi arrivavo all’altezza del suo letto e ha
impressa nella mente l’immagine di lei che mi teneva la manina mentre mi
parlava. Ricordo la sua voce dolce, flebile ma carica di forza e di
speranza.
Quando le ho detto che sarei andata al mare per la prima volta, mi ha chiesto
di farle un piccolo favore: registrare il “rumore” del mare, per poterglielo
fare ascoltare quando fossi tornata a casa. Io sono stata felice di aver potuto
esaudire, con un gesto così semplice, un suo grande desiderio.
Un valore importante che lei mi ha trasmesso è stata la solidarietà: con le sue
parole e i suoi racconti sui bambini del Togo e sulle difficoltà che dovevano
affrontare e superare ogni giorno per vivere, ha fatto nascere nel mio cuore il
desiderio di aiutare questi bambini meno fortunati di me.
Porteremo sempre nel cuore il ricordo della forza di Urbana che, nonostante le
sue difficoltà, riusciva ad attirare intorno al suo letto tante persone
disponibili a farsi contagiare dal suo entusiasmo e ad aiutarla
incondizionatamente nel sostenere la sua grande opera in un Paese così lontano
e sconosciuto ai molti. Questo entusiasmo Urbana lo trasmette ancora adesso da
lassù, e ne è una prova il gran numero di persone che continuano a credere nel
Gruppo San Francesco e a sostenere le sue opere.
Angelica Pozza
Articolo numero 10
Urbana e la poesia
Nasce da lontano la sua passione per i versi e l'accompagna per tutta la sua
esistenza
La malattia, che si presenta molto presto, la induce ad isolarsi nella sua
prima giovinezza. Adolescente aveva già subito varie operazione agli occhi,
purtroppo inutili, visto che perse la vista e le prime avvisaglie della “grande
malattia”, così da lei definita, si facevano già sentire.
Urbana invece di
partecipare alle feste di paese, dove, tra gli altri, anche i suoi coetanei, si
ritrovavano per socializzare, ballare e divertirsi, si nascondeva poco
distante. La distanza necessaria per poter comunque sentire la musica e il
vociare festoso e spensierato dei compaesani.
Nascono qui i
primi sentimenti di malinconia che la inducono a scrivere, a mettere in versi
la sua tristezza e la sua incapacità di infrangere la barriera della diversità,
perché come dice nelle conversazioni autobiografiche, “non avrei potuto
comunque divertimi come gli altri e io provavo pudore perché, gli altri,
avrebbero potuto pensare che io non avevo diritto di essere lì a spassarmela
visto che ero cieca”. Atteggiamenti tipici di molti adolescenti, ma in un animo
sensibile e portato all’arte come quello di Urbana, danno l’impulso per
iniziare a comporre i primi versi che lei stessa definisce “leopardiani” per
l’evidente richiamo all’isolamento e alla impossibilità di divertirsi assieme
agli altri; purtroppo di questi versi non rimane
nulla, la foga e l’insoddisfazione adolescenziale la portano a distruggerli di
lì a poco.
La malattia
avanza e, per alcuni anni, prende il sopravvento; nel frattempo Urbana inizia
le scuole magistrali e gli studi di pianoforte che richiedono molto tempo e
molti sacrifici, visto che la pratica comportava molte ore di esercizio al
giorno, cosa che per una persona con i dolori di schiena che aveva lei,
significava una sofferenza quotidiana.
In ospedale
incontra la poesia
E’ nel 1949 in seguito ad uno dei molteplici
ricoveri all’ospedale di Padova, che ha l’occasione di riavvicinarsi alla
poesia. Era degente nello stesso reparto un tenente di Aviazione, probabilmente
per curare qualche conseguenza della guerra; Urbana non ne ricorda il nome, ma
ne ricorda la cortesia con la quale si proponeva di tenerle compagnia; doveva
essere impressionato da questa ragazza, non ancora ventenne e non vedente, che
con tanto coraggio affrontava la sua malattia. Così scopre di condividere con
lei la passione per la Poesia. Urbana ricorda ch’egli portava sempre con sé la
raccolta di Eugenio Montale “Ossi di Seppia” e gliene leggeva qualcuna per passare
il tempo. Urbana lo menziona con gratitudine nelle conversazioni
autobiografiche, sia perché le faceva trascorrere piacevolmente il tempo ma
anche perché queste letture le diedero il desiderio di riavvicinarsi alla
poesia, una forma di espressione che sentiva molto vicina alla propria
sensibilità. Dirà più tardi che “scrivere è una liberazione, indipendentemente
che qualcuno poi legga quello che hai scritto”.
I primi versi
In questi anni
Urbana, con l’ulteriore aggravarsi della malattia, fatica a leggere ma si
dedica a comporre versi. Ricorda, nelle sue poesie, l’infanzia felice
nonostante la povertà della sua famiglia; la scuola, l’avvicendarsi delle
stagioni e l’affacciarsi precoce della prima fase della malattia; il fratello
partito per la campagna di Russia e mai più tornato. Compone per sé, per far
passare il tempo, per gestire la solitudine, per esprimere i sentimenti
soffocati, per liberare la sua anima. Non immagina che le sue composizioni
possano diventare libri, non ha velleità di divulgarle né, tantomeno, di
pubblicarle.
La natura, che
ama e celebra spessissimo nei suoi poemi, attraverso i suoni le induce i
ricordi più belli. L’udito si sa, per chi ha perso la vista diventa
fondamentale e lei impara a riconoscere i rumori e i suoni che la circondano
nella sua casa in campagna, sono cioè veicolo di ricordi e di sentimenti da
celebrare. Così il canto dell’allodola le riporta la visione del grano nelle
estati felici quando, bimbetta, correva nei campi; il rumore del temporale le
induce il ricordo dell’arcobaleno che non mancava mai di incantarla e che dà il
titolo ad uno dei suoi libri. I colori dei fiori pur nel ricordo, sono
vivissimi nei suoi versi.
Incoraggiata
dalla sua “grande Famiglia” Urbana, anche se tra mille difficoltà, scrive; ha un
computerino braille che la aiuta molto anche quando comincia a perdere la
sensibilità delle dita. Scrive dapprima “con la mente”, come ci racconta, per
risparmiare energie fisiche e poi digita nella tastiera quando è sicura che i
versi corrispondano a quello che vuole esprimere. Mano
a mano evolvono le tematiche, la sua memoria fotografica affina la capacità di
esprimersi attraverso i suoi componimenti, la bellezza del creato in
particolare, ma anche la Fede diventa grande fonte di ispirazione per Lei.
Poi arriva Kekeli Neva, questa incredibile opera a cui dà vita con
l’amico Padre Fabio Gilli non vedente come lei. Aiutare i bambini ciechi del
Togo è una folgorazione come la definisce lei stessa. Tutta la sua vita è dal
quel momento votata a questa missione. Missionaria immobile, dal suo letto di
Barbarano, mobilita persone, diffonde il messaggio e il miracolo avviene e
continua tutt’ora a vent’anni dalla sua morte.
I ciechi del Togo
non sono più abbandonati a sé stessi o destinati all’accattonaggio. Possono
studiare, imparare il braille, aspirare a diplomarsi ai livelli più alti, avere
un lavoro.
La poesia
incontra la solidarietà: è la stagione di Kekeli Neva
Per la prima
volta Urbana pensa di pubblicare le proprie poesie in un libro; lo scopo è uno
solo: contribuire con la sua vendita alla raccolta fondi per Kekeli Neva. Il primo volume “Il mio canto” è acquistato da
molti amici e i ritorni sono lusinghieri non solo da un punto di vista
economico: la gente apprezza molto le sue poesie. Il ghiaccio è rotto segue un
secondo volume, un terzo. Urbana prende coraggio e invia alcune poesie ai
concorsi. Arriva quasi sempre tra le prime poesie selezionate.
La sua passione è
alimentata, in questo periodo, dagli incontri letterari a cui accede grazie a
questi concorsi e ai riconoscimenti che ne fanno seguito. Cerca di dedicare più
tempo alla scrittura; purtroppo non riesce più a leggere e la poesia diventa
l’interesse prevalente; studia per migliorare la sua tecnica di composizione
poetica. Introduce la metrica, che diventa il modo di concepire i versi; la
musicalità in lei innata si esprime al meglio negli endecasillabi e nei
settenari che compone. E anche i riconoscimenti delle giurie specializzate non
si fanno mancare, sono innumerevoli i premi assoluti che riceve negli anni novanta. Sono otto i volumi di poesie pubblicati, uno dei
quali dalle Edizioni Terni come riconoscimento per il primo premio ottenuto al
concorso da loro indetto nel 1995.
Le sue memorie
autobiografiche sono invece raccolte nel volume uscito postumo “Acqua Marina”
ricavate da una serie di interviste radiofoniche registrate da Radio Insieme di
Vicenza tra il 1996 e il 1997.
Stefania Pedersini
Articolo numero 11
Otto poesie di Urbana Carezzoli
PRESTAMI LA TUA LUCE
Prestami la tua luce.
Tutto impallidisce.
Lo spirito trema.
Cade l’ultima stella
e morendo mi chiama
lontano dal dolce
martirio del mondo.
Prestami la tua luce.
Io devo andare.
Da Il mio canto - 1990
LASCIAMI COSI’
Lasciami così,
buona, in pace,
con le mie mani
chiuse nelle tue mani;
con una gioia dentro,
che cresce, cresce
e i sensi annega,
nelle labbra schiuse
da amoroso silenzio.
Da Le sparpagliate carte - 1991
SOLA, LENTAMENTE
Sola, lentamente, la notte
avanza. L’avverto posarsi
lieve sulle stoppie fiorite
di trifoglio. La odo frugare
curiosa tra il sommerso brusio
delle fronde. La scorgo intenta
ad ascoltare senza fretta
la passione di un usignolo.
Poi, misteriosa ed improvvisa,
dolcemente tutta mi prende.
Da Frammenti di favole vere -1993
NEL COLMO DELLA NOTTE
Nel colmo della notte mi svegliai
sorpresa dal ritmo trafelato
della pioggia, in ritardo arrivata.
Freschezza odorosa di campagna
entrò dalla finestra socchiusa
portandomi fantasie d’aprile;
e nel mattino di madreperla,
corse un brivido verde di luce,
sulle cose vogliose di vita,
e d’improvviso, fu primavera.
Da Nei giardini dell'arcobaleno - 1995
FIORI DI MANDORLO E COCCINELLE
Fiori di mandorlo e coccinelle:
palpiti nuovi di primavera,
e sul respiro della collina,
rosea la sera veleggia lenta
estinguendo ad uno ad uno, tutti
i rimpianti vicini e lontani.
Ma, ancora ardono frammenti di poesia,
attimi non goduti di dolci
fragranze; e mi soffermo tra i rovi
a raccogliere l’ultima bacca
rimasta intatta tra le ceneri
della mia continua penitenza.
Da Fiori di mandorlo e coccinelle - 1996
UN DESOLATO CADER DI FOGLIE
Un desolato cader di foglie
tra i roseti, da tempo sfioriti.
Un lamento di grilli in agonia
confuso con l’odore del mosto,
che in questa sera d’autunno,
ubriaca pure la luna, intenta
a fissare la stanca natura,
presa dall’ansia d’algide attese.
E mentre qua e là svolazza ancora
la civetta, insidiando le prede
che per sfuggire a sicura morte,
si celano in tane improvvisate,
un velo di tetra sonnolenza
si stende sugli occhi delle cose,
impedendo loro di guardare
il cielo perpetuamente desto.
Da Prima che il tempo - 1996
INQUIETE SENSAZIONI
Inquiete sensazioni
di incredibili vuoti,
si annidano nel buio
di silenziose angosce,
ignorando le stelle,
che sfavillano mute,
nella solitudine
della mente annoiata.
E il tempo, che scorrendo
graffia, indifferente,
ore di malinconia
e momenti incantati,
andandosene, coglie
pochi fiori di campo,
lungo la tortuosa via,
dal destino segnata.
Da Illusioni dolcissime, inquiete sensazioni - 1998
PER NON SMARRIRE
Per non smarrire sacri valori,
ho deciso di inciderli in fondo
all’anima per poterli sempre
benedire e, ad altri, ricordare.
Per non proibire alla mente il volo,
ho chiesto al sole di non stancare
le ali ad un anelito odoroso
d’incenso da ardere come offerta.
Per non perdere visioni amate,
col ricordo son tornata al tempo
quando, stretta all’aquilone, in alto
salivo, per riempirmi d’azzurro.
Da Per non smarrire - 2000
Articolo numero 12
«Ti ringrazio tanto Urbana, anche per gli scossoni che mi hai dato!»
Il ricordo di
Padre Fabio Gilli, il comboniano non vedente che ha avuto un ruolo fondamentale
nel suo impegno per i ciechi del Togo .
Urbana è una di
quelle persone che abbiamo incontrato nella nostra vita e che ci hanno
veramente scossi. Per me di sicuro è stato così: da quando ha saputo della mia
esistenza, missionario non vedente in Africa, non mi ha lasciato vivere, nel
senso che era tutto un chiedere, proporre, voler capire, voler aiutare…
Lei pensava
soprattutto ai bambini e ai giovani non vedenti che voleva avessero la
possibilità di istruirsi a dovere, non solo di imparare a leggere e a scrivere
ma di diplomarsi, laurearsi, diventare maestri o professori. Tutte cose che a
quei tempi erano ancora più che altro nelle nostre intenzioni, ma che oggi in
Togo sono diventate realtà. E questo anche grazie al suo impegno e alla sua
capacità di vedere lontano, ma soprattutto di non scoraggiarsi mai.
Lei era non
vedente come me, ma era anche completamente paralizzata e sempre a letto;
poteva muovere un braccio e con questo telefonava in continuazione per spiegare
a tutti quello che si stava facendo. E non si scoraggiava mai: questa è una
delle più grandi cose che mi ha insegnato.
Lei era inferma,
sempre a letto, bisognosa di tutto, ma quando la si andava a trovare non era
mai lei che doveva essere consolata o incoraggiata. Ricordo come fosse ieri
quando le ho telefonato piangendo perché era morta la mia mamma. Lo scossone
che m'ha dato! Come ha saputo consolarmi, confortarmi, fortificarmi anche in quel
momento così doloroso, uno dei più dolorosi della mia vita.
Lei non si
lamentava mai.
Durante le mie
vacanze in Italia passavo regolarmente qualche giorno a casa sua e un giorno,
al termine della Messa Eucaristica che come al solito celebravo nella sua
camera, vicino al suo letto, io dissi:
"Ecco, mi
trovo in questa situazione, missionario cieco, ma non farei cambio con
nessuno".
E lei aggiunse:
"Eppure io non farei cambio con nessuno".
Non era un modo
di dire: sentivi che lo pensava veramente, con tutto il suo cuore, perché
sapeva cogliere l'aspetto positivo di ogni situazione. E sapeva dare tanto bene
agli altri, come lo dava a me, ascoltando e infondendo coraggio, aiutando chi
aveva bisogno del suo conforto anche se a volte era tutto molto faticoso.
Quando l'ho
conosciuta io era già anziana, anche se sempre attivissima, e la stanchezza si
faceva sentire ma faceva di tutto per non badarci e andare avanti. La sua
sofferenza però era grande, e talvolta non ce la faceva più.
Mi raccontò che
un giorno aveva detto ai suoi parenti che non sentiva di ricevere nessuno e se
qualcuno fosse venuto di dire che lei non stava bene. Arrivò una persona che
veramente desiderava la confidenza di Urbana, che aveva bisogno di lei, ma i
familiari come d'accordo non la lasciarono entrare. Quando lo seppe, e le
raccontarono il dolore in quella donna che voleva incontrarla e aprire il suo
cuore ma se n'era dovuta andare, ci rimase malissimo. E mi disse: «Da quel
giorno feci il possibile per ricevere tutti coloro che venivano, senza mai dire
a nessun ti riceverò un'altra volta, ed ebbi la forza anche se non mi sentivo
bene, di accogliere tutti».
Ma lei sentiva
che le forze la lasciavano e la sua preoccupazione era sempre più quella di
dare continuità a ciò che aveva messo in piedi per i bambini ciechi del Togo.
L'associazione
che lei ha fondato, dedicandola a San Francesco d'Assisi per il quale aveva una
enorme devozione, è stata da questo punto di vista il suo capolavoro. E lo
dimostra, al di là di tanti discorsi, il fatto che 20 anni dopo la sua morte
sia ancora attiva e ben presente in Togo, con interventi efficaci e mirati
grazie ai quali centinaia di bambini e ragazzi ciechi hanno potuto studiare in
questi anni, imparando non solo a leggere e a scrivere ma consentendo ai più
capaci e determinati, e ce ne sono tanti, di arrivare al diploma e alla laurea,
e di diventare insegnanti, proprio come sognava Urbana tanti anni fa.
Lei è sempre
presente nella nostra memoria ma, da credenti, sappiamo che ci vede, ci conosce
e continua a starci vicina e di sicuro non abbandonerà le iniziative per i
ciechi del Togo che tanto ha amato.
Urbana, ti posso
solo dire grazie, perché sei una grande missionaria.
Padre Fabio
Gilli
Articolo numero 13
Essi sono come
me! Così nasce l'impegno di Urbana per i bambini ciechi del Togo
Un giorno
ascoltando la radio ho sentito parlare di una scuola per bambini non vedenti in
Togo.
E’ stata come una folgorazione: «Essi sono come
me - ho pensato - provano le difficoltà che ho provato io, i miei stessi disagi
di povertà, di emarginazione; più di loro, chi potrei aiutare?»
Aiutarli
nell’istruzione, nella cultura, che per me è stata luce... Anche per loro, come
per tutti gli altri non vedenti, la scuola deve portare luce, aprire la loro
anima, aiutarli a capire meglio gli altri uomini, a valorizzare la propria
personalità e la propria dignità.
Era il progetto
più bello ed importante che avessi mai incontrato e mi ci sono buttata a
capofitto.
La scuola era
stata appena fondata da Padre Fabio Gilli, un comboniano cieco che aveva perso
la vista quando era già missionario laggiù.
In seguito è
tornato per alcuni anni in Italia, ha imparato a leggere e a scrivere in
braille ma poi ha voluto tornare in Togo per riprendere la sua vita di prima.
Qualcuno poteva pensare che un missionario cieco, in un ambiente così
difficile, non serviva a niente, ma lui ha pensato
proprio ai ragazzi del Togo che non vedono e, assieme ad altri, ha fondato, nel
1984, questa scuola per loro. Ha cominciato con 5-6 ragazzi, ora sono 72. La
scuola funziona bene, ma ha bisogno di aiuto e per questo è nato il gruppo San
Francesco. Quando Padre Fabio mi ha detto la cifra annuale necessaria ho
risposto: «Va bene, ci penseremo noi». Con degli amici ci siamo autotassati, a
volte arrivano offerte straordinarie, e ce l'abbiamo sempre fatta.
Urbana Carezzoli - 1998
Da Acqua Marina.
Cap. 16. Kekeli Neva
Nessuno dei
ragazzi ha avuto la possibilità di conoscerla direttamente ma la narrazione di
quelli che l'avevano incontrata in Italia, da Padre Fabio prima di tutto, alle
suore direttici, al vescovo di Aneho, lasciava in
tutti un segno indelebile. Sentire parlare di questa donna lontana, cieca come
loro ma inferma e perennemente bloccata a letto, che instancabilmente si dava
da fare per sostenere la loro scuola, lasciava tutti pieni di ammirazione, ma
anche di speranza e di coraggio.
Nell'anno 2000,
in occasione del Giubileo, è stato organizzato un viaggio che ha portato in
Italia venti di loro e tra le grandi aspettative di questa avventura, a lungo
sognata e preparata, c'era proprio l'incontro con Urbana, a Barbarano. Incontro
che non c'è stato, purtroppo, perché loro sono arrivati in settembre mentre
Urbana era morta due mesi prima: hanno potuto solo visitare la sua camera e
cantare davanti al suo letto vuoto, e poi lasciare dei fiori al cimitero.
Come dicevo,
anche se quasi nessuno l'ha mai incontrata, in tanti in Togo l'hanno conosciuta
per mezzo delle sue parole scritte, chi ci vedeva almeno un po' da qualche
fotografia, ma soprattutto verificando i risultati delle sue iniziative. E tra
questi mi ci metto di sicuro anch'io, Moïse Tchapo,
che da cieco ho conosciuto Urbana Carezzoli l'11
febbraio 2008, quasi otto anni dopo la sua morte. Perché la vita ci insegna che
"l'uomo muore, le sue azioni rimangono!", e io le azioni di Urbana le
ho potuto toccare davvero.
Era un periodo
veramente molto difficile per me: avevo perso la vista a seguito di un'emorragia
al nervo ottico ma sentivo che si poteva guarire e da mesi chiedevo aiuto per
essere curato in un ospedale in Europa. Ho incontrato Padre Fabio Gilli e la
mia vita è cambiata. Mi ha detto: «Figlio mio, al momento non ho mezzi per
aiutarti; ma in aprile verrà in Togo qualcuno del gruppo di Urbana Carezzoli e ti presenterò a loro. Sono gentili e
disponibili, come era Urbana» e mi ha parlato di lei come di una persona
"nata per il Togo e per i ciechi del Togo".
Due mesi dopo,
come promesso, ho incontrato i rappresentanti del gruppo di Urbana, che ho
scoperto chiamarsi "Gruppo San Francesco d'Assisi": mi ha commosso la
loro accoglienza, ma anche le parole e testimonianze ascoltate su Urbana dalla
bocca di chi l'aveva sostituita come presidente.
Grazie al loro
sostegno ho potuto finalmente iniziare un percorso di cura che, con altri
generosi aiuti e un intervento chirurgico in Germania, mi ha portato negli anni
successivi a una piena guarigione e al recupero totale della vista.
Così la mia vita
è cambiata, in tutti i sensi. Ho iniziato a collaborare intensamente con
l'associazione Gruppo San Francesco d'Assisi, di cui ora sono rappresentante in
Togo, e con Padre Fabio Gilli, per sostenere le tante iniziative che essi
avevano attivato per aiutare i ciechi del mio paese, assai meno fortunati di
me. Io, che sapevo bene cosa voleva dire vivere senza
vedere, rimanevo affascinato dalla serenità di questo prete cieco che diceva:
“Dio mi ha chiuso gli occhi affinché potessi accorgermi dei non vedenti bisognosi
del Togo che prima non ero stato capace di vedere”.
Negli anni
successivi sono stato più volte in Italia e sempre ho incontrato la famiglia di
Urbana, fratelli, cognate, nipoti. Ho provato l'emozione di visitare la stanza
da cui è partita l'idea di condivisione e carità che tanto bene ha fatto ai non
vedenti del mio paese. Ho immaginato come doveva essere stata questa camera
quando era teatro di incontri, riunioni, assemblee, messe, sempre attorno a
quel letto. E ho ringraziato Dio per aver donato ai ciechi del Togo una
benedizione chiamata Urbana.
Moïse Tchapo
Nelle foto:
Moïse con Padre Fabio Gilli
Ragazze e suore
di Kekeli Neva nella camera di Urbana, a Barbarano,
attorno al suo letto vuoto. Settembre 2000.
L'ufficio della direttrice di Kekeli Neva, a
Togoville (Togo), con la grande foto di Urbana. Agosto 2002.
- gestiamo un
Centro di supporto agli studenti ciechi, con stamperia braille, nella capitale
Lomé;
- manteniamo agli
studi 25 studenti in entrambe le università del Togo, a Lomé e a Kara;
- forniamo
materiale didattico a sei scuole per non vedenti e aiuti finanziari a quelle
più bisognose;
- aiutiamo con
progetti di assistenza e adozioni a distanza vari bambini figli di genitori non
vedenti;
- collaboriamo ai
progetti sanitari di prevenzione della cecità promossi dall'associazione
partner FONTES.
Come aiutarci:
Potete inviare le
vostre donazioni:
- Presso gli
uffici postali con bollettino di C.C.P. n. 18 88 33 55 intestato a “Gruppo S.
Francesco d’Assisi onlus”
- Con bonifico bancario:IBAN
IT07 U076 0111 8000 0001 8883 355
Bancoposta Agenzia di Vicenza
- On line con
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