Per i ciechi del Togo
Kekeli Neva

Bollettino del Gruppo San Francesco d'Assisi di Barbarano Mossano

http://www.grupposanfrancesco.org

Luglio 2020


Sommario

1 Urbana: siamo sempre accanto a te, per i bambini ciechi del Togo che portavi sempre nel tuo cuore -  di Flavio Fogarolo
 
2 In breve, la storia di Urbana raccontata con le sue stesse parole: una vita complicata che ha molto da insegnarci
 
3 Urbana nel ricordo di due persone che per tanti anni le sono state strettamente vicine: le cognate Antonia e Bertilla

4 «Abbiamo voluto che ci facesse da testimone di nozze e l'unica soluzione era sposarsi davanti al suo letto» - di Luigina Vigolo
 
5 Il mio ricordo di Urbana Carezzoli - di Giovanna Bogoni
 
6 Ricordo di una riflessione sulla famiglia e di una lezione di vita -di Alessandra Carezzoli

7 La Zia è sempre con noi - di Emanuela Carezzoli

8 Quanta nostalgia di stare appesa al tuo ramo! - di Rita Padrin

9 Il suo entusiasmo contagioso - di Angelica Pozza

10 Urbana e la poesia - di stefania Pedersini

11 Otto poesie di Urbana Carezzoli

12 «Ti ringrazio tanto Urbana, anche per gli scossoni che mi hai dato!» - di padre Fabio Gilli

13 Essi sono come me!  - di Urbana Carezzoli

14 Una benedizione chiamata Urbana - di Moïse Tchapo

15 Emergenza Covid anche in Togo: piano piano si riparte e riaprono tutte le nostre scuole

16 Completati gli interventi chirurgici per la piccola Jade: ora si può essere ottimisti!

17 Pronto il nuovo centro oculistico, ma a causa del virus si parte a ottobre

18 Intestazione e informazioni
 


Articolo numero 1

Ricordiamo, a vent'anni dalla sua scomparsa (22 luglio 2000) Urbana Carezzoli, fondatrice della nostra associazione.

Urbana: siamo sempre accanto a te, per i bambini ciechi del Togo che portavi sempre nel tuo cuore

Vale la pena conoscere questa donna, cieca e inferma, stabilmente a letto per quaranta anni, che ha saputo smuovere amici e conoscenti per aiutare i bambini ciechi di un paese lontano, che a malapena prima aveva sentito nominare, e alla fine della sua vita ha fondato una associazione affinché tutto questo non finisse con lei
È dedicato a Urbana quindi questo giornalino, a venti anni dalla sua morte: era il 22 luglio del 2000. Un numero speciale per le dimensioni, sempre modeste ma insolite per noi e per i nostri mezzi, ma soprattutto per il coinvolgimento di tante persone che l'hanno conosciuta e apprezzata, e che ci hanno dato la loro testimonianza.
Quando Urbana ci ha lasciati, ci siamo chiesti come avremmo potuto continuare ad aiutare quei bambini senza di lei. Sembrava un'impresa disperata: era lei che teneva in piedi tutto, che sapeva convincere, raccontare, entusiasmare... Le persone andavano a trovarla, parlavano con lei, le aprivano il cuore, poi le lasciavano un'offerta ("Per i tuoi bambini!") e se ne andavano contente.
Abbiamo subito aperto un conto postale e fatto stampare i bollettini, poi abbiamo scritto agli amici di Urbana: «Adesso, se volete continuare ad aiutarci, dovete andare in posta». Ma non era certo la stessa cosa!
Temevamo che in posta non ci andasse nessuno, e invece ci sono andati tutti: nessun sostenitore di prima si è tirato indietro. E da lì abbiamo capito che il nostro impegno poteva continuare perché quello che Urbana aveva costruito era più solido che mai.
Anche per me è il momento degli anniversari perché, grazie alla fiducia dei soci, sono vent'anni che sono presidente, al posto suo. Non ho mai pensato di poter fare quello che faceva lei e il mio impegno più grande, da allora, è stato quello di far continuare quello che lei aveva costruito.
Sono stato 11 volte in Togo e ancora adesso, ogni volta che torno a casa, immagino di salire da lei, al primo piano, sedermi vicino al suo letto e raccontarle quello che ho visto laggiù. Nonostante tante difficoltà, credo che quello che abbiamo fatto in questi anni le sarebbe piaciuto davvero.

Flavio Fogarolo

Articolo numero 2

 

In breve, la storia di Urbana raccontata con le sue stesse parole: una vita complicata che ha molto da insegnarci

Qualche stralcio dalle interviste autobiografiche registrate per Radio Insieme tra il 1996 e 1997 e trascritte dalla nostra associazione nel 2001, l'anno dopo la sua morte, in un libro, dal titolo "Acqua Marina".

La vita di Urbana Carezzoli (1930-2000) non è stata per nulla facile: a 6 anni perde rapidamente la vista e si trova completamente cieca, verso i 30 una malattia la costringe stabilmente a letto e passerà così gli ultimi quarant'anni della sua vita.

Anche in un'infanzia estremamente povera Urbana sa vedere le cose positive della vita: gli affetti familiari, prima di tutto, e la gioia che danno le cose semplici, quelle che non costano nulla, come la natura che ci circonda.

 

I miei erano poverissimi, proprio di una povertà che non saprei neanche descrivere. Beh, forse per dare l’idea potrei parlare di servi della gleba.

Erano braccianti e, com’era usanza, il giorno di San Martino, l’undici novembre, cambiavano spesso casa e padrone, andavano di qua e di là.

Ci si trasferiva con tutta la famiglia e le misere cose che si avevano; si faceva un contratto con il nuovo padrone che offriva una casa. Se si poteva chiamare casa!

Quell’anno mi hanno portata a Toara, un piccolo paese ai piedi dei Colli Berici. La casa che ci avevano assegnato era la continuazione di una lunga stalla piena di animali. In fondo, oltre una porta, c’erano due vani umidi, senza finestre e con un grande camino. E lì vivevamo noi.

Ci sentivamo fortunati perché facevamo la nostra polenta… Di questo ho un ricordo molto bello: la mamma metteva il paiolo sul focolare e incominciava a farinare, così si diceva, con noi tutti intorno, e intanto ci insegnava le preghiere. Tante volte dal camino, soprattutto nelle sere più umide, pioveva giù della caligine e cadeva proprio nel paiolo. Ma anche questo dava sapore!

E si giocava a chi era più svelto a prendere il mestolo, anzi il mestone, quello che lei adoperava per stirare la polenta. E c’era chi meritava di mangiare le croste che toglievamo dal paiolo e che erano davvero squisite!

I miei ricordi di allora sono dei frammenti, come dei lampi che mi sono rimasti impressi nella mente.

Del paese rivedo, ad esempio, la fontana in mezzo alla piazza, un grande albero, il lavatoio...

Ricordo bene la chiesa di Toara, perché poi non ne ho viste altre di chiese. Era una piccola chiesetta di campagna: allora la potevo vedere mentre poi ho sempre immaginato tutto il resto. E lì ho fatto la Prima Comunione

 

E la Prima Comunione è il primo grande ricordo "al buio" di Urbana che in quel periodo diventa cieca.

 

Il secondo anno delle elementari, dopo Natale, ho cominciato ad avere mal di testa e i miei si sono preoccupati. Si sono accorti loro che io mi avvicinavo un po’ troppo per guardare le cose; mi hanno portata dal medico, il medico generico, e lui non potendo far niente mi ha mandato da un oculista a Vicenza.

Mi ha fatto ricoverare e subito ha incominciato a operarmi, prima a un occhio, dopo all’altro e questa è stata una esperienza dolorosissima… Dolorosissima perché lontana dal mio mondo, dal mio regno, dalla mia felicità. Lontana anche dai miei, perché allora le regole ospedaliere erano molto diverse e mi potevano vedere solo due volte alla settimana; guai se portavano una caramella, era proibita anche quella.

Le prime due operazioni non sono state sufficienti, e quindi me ne hanno fatte altre due.

«Ma che cosa pretendete -rispondevano- con quello che ha, con quello che ha avuto…»

Dopo quattro operazioni decidono di farne un’altra, la terza sullo stesso occhio. Mi tenevano sempre bendata e mi legavano anche, perché non riuscivo a stare ferma.

Quando è arrivato il momento di togliere le bende mi sono accorta di non vedere più nulla con quell’occhio. E non ho più visto niente neppure dopo.

Poi i miei mi hanno portato a Padova, con di quei sacrifici che ancora adesso cerco di indovinare e mi chiedo come han fatto a procurarsi quei soldi, come hanno fatto! A Padova hanno constatato che era troppo tardi e non si poteva fare niente… Hanno tentato la sesta operazione e all'occhio destro e per un po’ di anni la luce, solo la luce, sono riuscita a vederla.

E qui finisce la storia della mia cecità, perché poi da quel momento io non ho avuto più speranze, e i miei neppure. Non era neanche il caso di andare di qua e di là a provare e riprovare…

 

Per Urbana comincia la stagione della vita in collegio presso gli istituti per non vedenti, alcuni anche molto lontani.

Della prima esperienza a Piacenza conserva un ricordo per nulla positivo, ma vivissimo è il momento in cui torna a casa, felice di poter mostrare alla mamma quello che ha imparato a fare la sua bambina cieca.

 

I miei abitavano in un nuovo paese, a Lovertino, perché nel frattempo avevano dovuto fare di nuovo San Martino.

A Vicenza è venuto papà a prendermi. Era sera tardi quando sono arrivata nel nuovo paese; poi c’era anche un bel po’ di strada da fare a piedi lungo il canale Bisatto.

Poco lontano da casa mi aspettava la mamma con il bambino piccolo, il fratellino, e piangeva perché lei non riusciva a rassegnarsi che io avessi perso la vista. Piangeva sempre e andava da un prete all’altro per trovare conforto.

Mi viene incontro, con questo pianto disperato, e io bambina: «Ma perché piangi, ma perché piangi, se tu sapessi quante belle cose ho imparato». E allora calma, ma tutta orgogliosa, ho cominciato a leggere con le dita, a dimostrare che ci sapevo fare. Forse da lì incomincia un po’ la mia ripresa.

Ricordo l’istituto di Piacenza con pena ma anche con gratitudine, perché lì ho imparato a leggere e a scrivere in Braille.

 

Arriva la guerra a sconvolgere la casa di Urbana e il pensiero più triste è ora per il fratello più grande, Terenzio, partito per la campagna di Russia e mai tornato.
E così anche la fine della guerra porta amarezza.

 

La guerra era finita, ma di gioia non ce ne poteva essere ancora. E questo valeva soprattutto per noi.

Avevamo perso una persona molto cara e di quel periodo, quando tutto sembrava tornare normale, rivivo soprattutto le angosce dei miei genitori, qualche volta addirittura le allucinazioni di mamma.

Noi eravamo piccoli, le stavamo vicino col nostro dolore, senza parlare, senza dire… Ma lei ci interrogava tutti, e pregava, e scriveva a Padre Pio… Di tutto ha fatto, di tutto.

Vivevamo con il ricordo del fratello non più tornato, con il dolore e la voglia dei miei di tenerlo ad ogni costo vivo. Ci parlavano in continuazione di lui e ci raccontavano quello che noi non avevamo potuto vivere con lui.

Papà e mamma non sono più riusciti a chiudere la porta a chiave, alla sera, quando si andava a letto. Non sono più riusciti, mai più.

A loro sembrava di chiudere fuori il loro caro.

E poi, sempre, nei nostri poveri pranzi e cene, sempre c'era un piatto in più, un piatto con qualcosa dentro. Noi piccoli non si capiva e si chiedeva: «Ma perché?» «È per quello che deve arrivare».

Noi non abbiamo una tomba su cui pregare però le nostre preghiere non sono mai mancate. Anche i bambini, i miei nipoti, adesso grandi, i pronipotini di adesso, sanno di questa persona che è morta, ma non è morta. E sopra la credenza c'è un ritratto dove non mancano mai i fiori, e anche i bambini piccoli se raccolgono un fiore «Lo portiamo a Terenzio» dicono.

 

Urbana termina gli studi e si diploma in pianoforte a Padova, ma si fanno sentire, gradualmente ma sempre più insistenti i problemi di salute, con tanti ricoveri in ospedale e la possibilità di muoversi che diminuisce sempre più. Finché nel 1960, a 30 anni, Urbana si trova stabilmente immobilizzata.

 

Per me cambiava completamente tutta la vita; io ero costretta su un letto e quando si è costretti su un letto che cosa si può fare?

Non posso mica tutto il giorno star lì ad ascoltare le canzonette, oppure… non lo so. Allora cosa devo fare? Devo riempire tutta la mia vita, ogni piccolo spazio, non dare alla noia la possibilità di entrare, perché la noia è una bruttissima malattia.

E quindi tornata dall’ospedale con questa convinzione di dover cambiare tutto mi sono detta: che cosa devo fare prima di tutto? Riempire ogni spazio.

Ho incominciato ad ascoltare le cose più belle della radio, e ho ripreso a leggere quasi con accanimento, come mi succedeva prima.

Ho incominciato ad aiutare i bambini che andavano a scuola, perché ai nipoti qui in casa ho insegnato io a tutti a leggere e a scrivere. E dopo venivano a studiare da me; ripetevano la lezione, mi davano tanta soddisfazione perché quando riuscivano bene a scuola mi sentivo orgogliosa.

Ero sempre indaffaratissima, ma non riuscivo a dire a nessuno: «Non ho tempo». Non avevo neppure il coraggio di dirlo. «Figurati se ci credono!» mi dicevo.

 

Urbana amava molto i rapporti sociali e quando ha scoperto il mondo dei radioamatori è riuscita a tessere con questo strumento una rete di amicizie, anche molto profonde, protratte poi negli anni.

 

Per entrare in questo ambiente per prima cosa bisognava scegliere un nome. Ne avevo tanti in testa, ma poi è prevalso Acqua Marina.

È un nome che ricorda il gioiello, la pietra preziosa azzurra che mi piace tanto. Ma anche l'acqua del mare… Mi piaceva molto questa espressione: «La vita, come l’acqua del mare, diventa dolce elevandosi verso il cielo». È una frase bellissima che mi è rimasta talmente impressa che la scrivevo spesso.

Ricordo i primi contatti, la curiosità… sai, senti una voce, è solo una voce e cerchi di immaginarti la persona che c'è dall’altra parte, e quindi qualche domanda, cosa fai e cosa non fai, e l’età che poi nessuno dice… Mi ricordo che ha chiesto la mia professione e a me, spontaneamente, mi è venuto di rispondere: «Ah, io faccio una professione di lusso!».

Lui naturalmente non capiva e allora ho spiegato: «Beh, di professione sono ammalata. È una professione difficile la mia perché devi convivere con i tuoi mali e stare accanto a tante altre persone» Ecco perché professione di lusso.

 

Successivamente altri due grandi impegni sono entrati nella vita "indaffaratissima" di Urbana: le poesie e il Togo. Ne parliamo più avanti.

Didascalia della foto: Della casa dell'infanzia di Urbana resta solo questa foto che ha fatto da copertina a uno dei suoi libri di poesie: "Illusioni dolcissime, inquiete sensazioni" (1998): O casupola delle mie fiabe, / dove, assai presto, ho conosciuto / ingiustizie, dolori e miseria, / ma dove, con chiarezza, ho appreso / pure gli insegnamenti preziosi / d'un'umile e cosciente povertà.

I magine della copertina del libro Acqua MArina. Didascalia:
Le testimonianze di Urbana raccolte in questa pagina sono tratte dal volume Acqua Marina che il Gruppo San Francesco d'Assisi ha pubblicato nel 2001, l'anno dopo la morte di Urbana, trascrivendo una serie di interviste radiofoniche condotte tra il 1996 e il 1997 da Gabriella Pellegrini per Radio Insieme.

Articolo numero 3

Antonia e Bertilla sono le cognate di Urbana, mogli rispettivamente dei suoi fratelli Orazio e Stefano, che hanno condiviso strettamente con lei i quarant'anni di questa sua particolare vita da inferma.

Bertilla ricorda che ha smesso di camminare poco dopo il suo matrimonio per cui, di fatto, da quando abita in questa casa l'ha sempre vista a letto.
Quaranta anni di giornate fatte di incombenze quotidiane, di cura e assistenza, dalla pulizia ai pasti, a tutto il resto. Con tanti ricoveri in ospedale, soprattutto nel primo periodo, e di quelli se ne occupava sempre Antonia perché Bertilla aveva le bambine piccole e doveva restare a casa.
Antonia aveva anche il compito di curare i testi delle sue poesie che per tanti anni Urbana ha raccolto con cura e precisione assoluta, con attenzione a tutti i dettagli, punteggiatura e versi, che lei non vedeva ma sapeva farsi ben raccontare. Solo verso il 1990 si è fatta coraggio e ha cominciato a pubblicarle, spinta anche dalla voglia di aiutare in questo modo i bambini ciechi del Togo di cui aveva cominciato ad occuparsi.
I primi anni, ricordano, non veniva tanta gente a trovarla: oltre ai parenti, solo alcune persone che aveva conosciuto in ospedale, infermiere e pazienti, soprattutto di Lonigo, poi ex compagni e insegnanti dell'istituto per i ciechi Configliacchi di Padova, e pochi altri. È stato quando è entrata nel mondo dei radioamatori, dei CB come si diceva, che la sua rete di conoscenze si è molto estesa.
Ricordano Antonia e Bertilla: «La sua festa del 1985 ha fatto confluire qui in casa, o meglio giù in cortile perché dentro non ci sarebbero mai state, tantissime persone che Urbana ha chiamato per festeggiare i 25 anni della sua malattia. Come diceva lei: le sue nozze d'argento. In quel periodo qui in casa era tutto un susseguirsi di compleanni, matrimoni, le nostre nozze d'argento, e Urbana ha voluto festeggiare a modo suo i 25 anni di vita a letto».
Molte delle persone che le erano vicine allora saranno poi quelle che le daranno la forza di impegnarsi, qualche anno più tardi, nell'impresa a sostegno dei ciechi del Togo alla quale avrebbe dedicato, con convinta passione, l'ultimo decennio della sua vita.
«Qui in casa - ricordano Antonia e Bertilla - si può dire che in quel periodo non si parlava altro che del Togo. È venuto varie volte Padre Fabio Gilli, che rimaneva con noi alcuni giorni, diceva la messa in camera di Urbana e passava ore con lei. Poi venivano le suore del Togo, le direttrici suor Delphine e suor Aimée, la generale del loro ordine suor Stephan… Loro non sapevano neppure una parola di italiano e noi neppure una di francese, ma in qualche modo ci si intendeva».
Quando arrivava il momento delle lotterie era una frenesia unica. Urbana le tentava tutte per raccogliere fondi per i bambini ciechi del Togo e si era buttata con tutto il suo entusiasmo anche in questa avventura, raccogliendo i premi e organizzando la vendita dei biglietti. Già la prima edizione è stata un successone, con tantissimi bei premi in palio, tutti donati, e vendita dei biglietti al 100%. Urbana, come sempre, era super meticolosa e voleva che tutte le matrici dei biglietti da estrarre fossero perfettamente arrotolate e fissate con un anellino: un lavoro fatto tutto a mano, che richiedeva tantissimo tempo. Suo fratello Stefano aveva adattato un cestello da lavatrice, di quelli con lo sportello di lato, per costruire un'urna girevole per estrarre i numeri come si deve! Naturalmente l'estrazione si faceva in camera di Urbana. Veniva anche un funzionario dell'Intendenza di Finanza che era abituato a lotterie fatte nelle sagre di paese e rimaneva alquanto stupito da una scena del genere. Sono ricordi che ora fanno sorridere, ma la cosa più bella è che questa lotteria, con estrazione il giorno di Santa Lucia come voleva lei, si tiene ancora oggi, trent'anni dopo, e anche in questo modo si continua ad aiutare i bambini ciechi del Togo. Non arrotoliamo più i biglietti, come voleva Urbana, ma facciamo l'estrazione velocemente con il computer, ma questo lei non lo sa!
La camera di Urbana era il centro di vita di tutta la grande famiglia Carezzoli, soprattutto dei bambini che salivano regolarmente da lei per fare i compiti, ma non solo. «Lei ha fatto da maestra a tutti i nostri figli», ricordano.
Sempre era attenta alle feste: Natale o Befana, anche nei momenti più difficili qualcosa per i bambini ci doveva sempre essere.
E parlando delle ricorrenze, a cui lei teneva tanto, alla fine della conversazione il ricordo arriva a quella notte in cui Urbana se n'è andata.
Era un pezzo che stava poco bene, i suoi problemi al cuore si facevano spesso sentire.
Racconta Antonia: «La sera prima, casualmente, si sono ritrovati qui tutti i nipoti e se ne sono andati, più meno verso le undici e un quarto. Urbana si preparava per la notte ma non si sentiva bene e ha chiesto di chiamare la nipote Isabella». Era lei che interveniva in questi casi, con i farmaci che le erano state prescritti per le situazioni di emergenza. «Isabella ha misurato la pressione e le ha dato queste medicine. Poco dopo mezzanotte è entrato in camera suo fratello Orazio e lei subito gli ha augurato buon compleanno. Il 22 luglio, infatti, lui compiva gli anni e lei se n'è ricordata anche in quella circostanza». Non se ne dimenticava uno, di compleanni!
Dopo qualche ora, Urbana è morta.

Nella foto: Urbana con due nipoti - 1989

Articolo numero 4

«Abbiamo voluto che ci facesse da testimone di nozze e l'unica soluzione era sposarsi davanti al suo letto»
 

Luigina e Carlo hanno celebrato il loro matrimonio nella camera da letto di Urbana per coronare così, in un momento di festa, un profondo rapporto di amicizia
 

Nel febbraio del 1971 stavo facendo il tirocinio in ospedale a Vicenza e sentivo le infermiere che nominavano spesso questa Urbana, che era stata ricoverata più volte da loro. Ne parlavano in modo molto particolare e mi hanno fatto venire una gran voglia di conoscerla.

Così è stato e da allora Urbana è entrata a far parte della mia famiglia e la mia vita è cambiata.

La sua casa, merito anche dei fratelli e delle sue cognate, Bertilla e Antonia, era sempre aperta a tutti, dai bambini, ai giovani, alle coppie, ma anche nonni, preti o medici. Tutti andavamo a trovarla, non certo per consolare un'inferma ma prima di tutto per stare bene noi stessi, chiedere consigli e ascoltare le sue parole, sempre speciali.

Quando io e mio marito Carlo ci siamo fidanzati lei ci ha seguito con trepidazione e affetto, così abbiamo voluto che fosse lei a farci da testimone di nozze. L'altra testimone era Marisa Chiarini, di Roma, non vedente anche lei, compagna di Urbana fin dai tempi della scuola e ora carissima amica anche nostra.

Così il 29 maggio del 1975 ci siamo sposati nella sua camera da letto, con tre preti. Lo spazio naturalmente era molto ristretto ma ci siamo stati: sposi, testimoni, altare… Chi non è riuscito a entrare ha seguito la cerimonia dal corridoio, o come poteva.

È stata una cerimonia intima ma bellissima che porterò sempre nel cuore. E che penso anche gli altri invitati non dimenticheranno facilmente.

A Urbana del resto piaceva festeggiare con gli altri: nel 1985 ha invitato tutti gli amici per celebrare i 25 anni della malattia che l'aveva costretta a letto e fare una festa di ringraziamento alla vita; eravamo più di 250 persone, c'è stata la messa in cortile con lei in una barella e poi stuzzichini per tutti.

Io quando parlo di Urbana dico sempre che sono stata fortunata nel conoscerla perché so per certo che ho conosciuto una santa.

Luigina Vigolo

 

Didascalia della foto:

La cerimonia di nozze di Luigina e Carlo nella camera di Urbana, 29 maggio 1975. Poiché entrambe le testimoni erano non vedenti, sono state assistite per la firma degli atti da Orazio, fratello di Urbana (a sinistra) e Ugo, marito di Marisa (a destra).

Articolo numero 5

Il mio ricordo di Urbana Carezzoli

Sale e luce per riconoscere l’altro nel bisogno

Sin dalla giovinezza sentii parlare con rispetto di questa persona, poiché mia mamma conosceva la sua famiglia, povera sì, ma molto dignitosa. Suo padre era un uomo con ideali, amante della conoscenza e aveva un carattere determinato. Sua madre era umile, gentile, lavoratrice senza tregua, perché aveva una numerosa famiglia.
Urbana molto presto conobbe una malattia che la portò alla cecità. Così per il suo percorso educativo fu affidata a più istituti: Piacenza, Trieste e poi a Padova. Gli studi compiuti la portarono a conseguire il diploma di pianoforte. Purtroppo nel tempo la sua persona fisica subì progressive flessioni e cadute di salute che la ridussero immobilizzata in un letto.
Era molto amata dai suoi familiari e come non ricordare i genitori, i fratelli, i nipoti e le sue care cognate Antonia e Bertilla, sempre solerti e disponibili. Urbana era dotata di una forza di volontà grandissima e di una rettitudine morale inconfutabile. La sua opinione per tutti era considerata importante perché donna intelligente e perspicace, intrisa di finezza psicologica. Lei amava incontrare le persone e per quel che mi riguarda, ricordo quando nei pomeriggi d’estate salivo da lei nella sua casa di San Pancrazio ed entrata nella sua stanza, avviavamo delle conversazioni piacevoli, piene di verità e schiettezza. A volte dalla finestra aperta entrava la luce del sole del pomeriggio, e l’aria portava con anche i profumi della campagna. Si parlava della natura, della musica e della poesia. Le raccontavo del grano maturo, dei campi, dei papaveri e delle viti e dicevo: ‘Sai Urbana, è così bello e sembra di sentire riecheggiare la musica di Vivaldi. Lei affermava che la musica è una rivelazione più profonda della filosofia, la musica è riverbero di luce.
Lei che non godeva più della luce, lei che immobilizzata nel suo letto seppe proporsi come un gigante alla società e a lottare in un mondo pieno di ostacoli. Seppe  infondere speranze, fece progetti, interventi per coloro che soffrivano come lei in terre desolate e lontane come quelle africane.
Il suo concetto, che la musica dilatava il tempo e i luoghi, si è concretizzato nella scelta e nella creatività per l’essere umano sofferente. A mio avviso, era profondamente convinta che l’amore riversato su queste povere creature fosse ciò per cui il buon Dio l’avesse destinata.
Fu tutto un susseguirsi di impegni e molte volte di lotte, di continuo coinvolgimento di persone finchè si delineò il progetto per aiutare le scuole per ciechi nella terra africana del Togo. Tantissime persone condivisero questo progetto, anch’io e mio marito.
Cosa dire poi delle sue poesie? Non furono solo parole, sentimenti, sensazioni, non furono nebbie che potevano far perdere la meta, ma veri e propri canti dell’anima e del cuore, sostegno vero nella lotta del quotidiano, che aprivano orizzonti luminosi.
In una sua poesia scrisse:
Per non smarrire sacri valori
Ho deciso di inciderli in fondo all’anima
per poterli sempre benedire e altri ricordi
La sua eredità è stata culturale, sociale, molto elevata, che ci aiuta ancor oggi.
Lei è stata sale e luce che ci servono per riconoscere l’altro nel bisogno.

Giovanna Bogoni

Articolo numero 6

Ricordo di una riflessione sulla famiglia e di una lezione di vita.

Una delle tante della sempre presente "zia maestra".

Durante il mio ultimo quinquennio scolastico (eravamo alla fine degli anni ’80) mentre frequentavo l’istituto magistrale, nei pomeriggi ero solita recarmi nella stanza della zia per studiare assieme a lei e ripetere ad alta voce nozioni e concetti da memorizzare meglio o per eseguire alcuni compiti assegnati per casa.
Una volta il compito da svolgere riguardava il concetto di famiglia e la sua evoluzione nel tempo e con la zia è nata una lunga discussione, con una riflessione approfondita e molto sentita.
Con lei avevo toccato i temi  di fatto legati alla nostra esperienza di famiglia che non era né quella patriarcale, dura e rigida ma con regole certe che davano sicurezza, né quella nuova, più flessibile ma dai risultati incerti in cui anche i rapporti interpersonali a volte non funzionano e si rischia di sentirsi soli, pur vivendo fisicamente assieme, se tutto è strutturato in maniera tale da lasciare poco spazio agli incontri, ai colloqui, alla dedizione, alla disponibilità e all'amore. Questo sistema di vita favorisce in questo momento il reflusso nel privato ed è difficile per la famiglia riproporsi come modello educativo e culturale, e saper mediare nella ricerca dei valori morali. Ma in una famiglia proiettata nel sociale, ognuno deve impegnarsi a fondo perché essa sia, o torni ad essere, non solo un nucleo di individui, ma l'emanazione continua di affetti, di assistenza ai più deboli, di comprensione, di solidarietà e di vero amore.
Il lavoro finale è stato apprezzato, ma fino a un certo punto dalla professoressa, che l'ha considerato troppo sociologico e la cosa ci ha fatto sorridere a lungo ma si siamo anche sentite lusingate quando in futuro tornavamo sull'argomento.
Per me di sicuro è stata una gran bella lezione. Una delle tante dell'unica e amatissima zia Urbana di cui posso dire, con orgoglio, ammirazione, stima e gratitudine che  è stata la mia più grande Maestra. Non è necessario che richiami alla memoria altri episodi particolari per ricordarla, perché la sua presenza è viva e costante e mi accompagna sempre con le sue infinite caratteristiche: la voce, l'atteggiamento altero, i modi gentili, i moti spontanei e ragionati, la coscienza e l’intelletto, la pienezza interiore, la carica emozionale, la forza, l’impegno, la costanza, la caparbietà, la determinazione, lo slancio, l’elevazione, il bene e il male intrinseci e contrapposti, la gioia e il dolore, la salute, la malattia, la passione, il reale e l’immaginario, la bontà d'animo... la bellezza tutta della sua vera e genuina essenza.

Alessandra Carezzoli

Disascalia della foto: Alessandra e il marito Michele attorno al letto della zia Urbana il giorno del loro matrimonio, 25 maggio 1996.

Articolo numero 7

La Zia è sempre con noi

I ricordi di una persona che hai nel tuo cuore ritornano vividi ogni volta che vedi qualcosa vicino a te e che rimanda a lei.
La Zia ha accompagnato per un lungo periodo la mia vita, ha ascoltato le mie parole, ha asciugato le mie lacrime, ha cancellato le mie paure e mi ha consigliato o indicato cosa fare.
Non lo ricordo, perché avevo un anno, ma la rivedo nella foto, a San Pancrazio, con me, i miei genitori, i nonni, mio fratello, una cugina e lei ancora in piedi. L'ultima foto così.
Poi dal suo letto ha interagito con il mondo. Era precisa, "per­fettina" nel letto senza una piega e ci amava come una mamma. Ricordo le preghiere, attorno al letto, prima di andare a scuola; i compiti fatti con lei e le poesie recitate assieme. A lei devo l'amore per la lettura: a Natale trovavo i classici per l'infanzia che poi letteralmente divoravo… "Piccole Donne", "Pic­cole donne crescono", "Pattini d'Ar­­gento" e "I misteri della giungla nera"...
Li faceva nascondere in camera sua perché non li vedessi, assieme agli altri doni per tutti noi. Le "fiabe sonore" hanno accompagnato la nostra infanzia, le ascoltavamo in camera sua più e più volte fino a ripeterle a memoria.
Quante discussioni assieme, poi si faceva come diceva lei, perché alla fine era la cosa giusta e tutto passava, restava solo l'amore, che quello sì era grande!
Ricordo ancora il suono del campanello, cadenzato da uno a tre colpi, per chiamare me, o la mamma, o la zia. E alla fine di un pranzo si saliva da lei, per raccontare come era andata. È sempre stata parte di noi, per ogni interrogazione o esame voleva il resoconto, come a ricondividere l'ansia e la soddisfazione.
Un'ultima cosa: dopo tanti anni con me è ritornata a votare. Avevo la sua delega ed entravamo assieme nella cabina, toccava la scheda e poi si votava. Quella era l'unica volta che usciva di casa se non doveva andare all'ospedale.
Anche adesso ripensando a quei momenti sorrido ed il loro rimando ad altri e ad altri ancora, è continuo...
Così la Zia è sempre con noi

Emanuela Carezzoli

Articolo numero 8

Quanta nostalgia di stare appesa al tuo ramo!
 

Cara zia, scriverò di te come sono abituata a fare, parlandoti direttamente con la mente.

Dal momento in cui sei mancata, incessantemente confido a te i miei pensieri più intimi. Avevo solo sette anni quando per l'ultima volta ho udito la tua voce, ho osservato il tuo viso, ho ricevuto una tua carezza. La pace vissuta mentre stavo rannicchiata al tuo fianco ha un sapore d'eternità che ancora oggi chiudendo gli occhi mi sembra di ritrovare.

La paralisi, la cecità, la malattia: niente ha saputo limitare l'amore di cui sei portatrice. Quell'amore ti ha resa capace di proiettare la tua figura, di allungarti, dilatarti ed espanderti, di muovere e abbracciare il mondo intero da una piccola stanza. Il sentiero che hai tracciato è ispirazione per chiunque venga sfiorato dal vento fresco delle tue parole, custodite in puntini impressi su carta, preziosi come perle.

Poesia è ciò che sei e la tua vita è dono di una leggerezza inarrivabile. Io, frutto del tuo albero, maturando mi son lasciata cadere sul prato, ma quanta nostalgia di stare appesa al tuo ramo! Ti dirò sempre grazie, per aver baciato la mia anima. Non dirò mai mi manchi, perché non mi hai lasciata. Ti sentirò ancora in ogni attimo, perché sei infinita.

Rita Padrin

Nella foto: Rita con Urbana

Articolo numero 9

Il suo entusiasmo contagioso

Due giovani genitori si trovano con una bambina cieca e nello sconforto incontrano Urbana. Così la ricorda la bambina di allora.
 

Io e i miei genitori abbiamo conosciuto Urbana quando io avevo due anni grazie a suor Mafalda, una religiosa che alla fine degli anni ’80 prestava servizio a Campiglia dei Berici. Lei era certa che Urbana, con il suo carisma e il suo amore per la vita, pur nella sofferenza e nelle difficoltà, avrebbe potuto essere di grande aiuto a questa giovane coppia di genitori di una bambina non vedente.
La mia mamma ricorda che durante il loro primo incontro Urbana le raccontò della festa che aveva fatto qualche anno prima per celebrare i 25 anni da quando era stata costretta a letto: ricorda ancora lo stupore e la grande ammirazione che ha provato nel vedere questa donna che amava la vita a tal punto da riuscire a trovare il bene anche nella sofferenza. Le parlò anche dei bambini ciechi del Togo, che amava come se fossero figli suoi (infatti per i bambini del Togo lei era “maman Urbana”), di padre Fabio e delle iniziative che metteva in atto per sostenere la scuola.
Suor Mafalda aveva visto giusto: infatti, dopo quel primo incontro, la casa di Urbana è diventata per noi un punto di riferimento importante. Andavamo spesso a trovarla, come si va a trovare un parente stretto. Difficilmente si restava da soli, perché spesso c’era qualcun altro, o qualcuno le telefonava per salutarla o per chiederle un consiglio o una parola di conforto, e lei era sempre disponibile per tutti, anche quando il solo parlare la affaticava tantissimo a causa della malattia che nel frattempo si era aggravata.
Urbana diceva che per lei ero come una delle sue nipotine e io l’ho sempre considerata una zia, tanto che la chiamavo “zia Urbana”.
Mio papà ricorda che io stando in piedi arrivavo all’altezza del suo letto e ha impressa nella mente l’immagine di lei che mi teneva la manina mentre mi parlava. Ricordo la sua voce dolce, flebile ma carica di forza e di speranza.
Quando le ho detto che sarei andata al mare per la prima volta, mi ha chiesto di farle un piccolo favore: registrare il “rumore” del mare, per poterglielo fare ascoltare quando fossi tornata a casa. Io sono stata felice di aver potuto esaudire, con un gesto così semplice, un suo grande desiderio.
Un valore importante che lei mi ha trasmesso è stata la solidarietà: con le sue parole e i suoi racconti sui bambini del Togo e sulle difficoltà che dovevano affrontare e superare ogni giorno per vivere, ha fatto nascere nel mio cuore il desiderio di aiutare questi bambini meno fortunati di me.
Porteremo sempre nel cuore il ricordo della forza di Urbana che, nonostante le sue difficoltà, riusciva ad attirare intorno al suo letto tante persone disponibili a farsi contagiare dal suo entusiasmo e ad aiutarla incondizionatamente nel sostenere la sua grande opera in un Paese così lontano e sconosciuto ai molti. Questo entusiasmo Urbana lo trasmette ancora adesso da lassù, e ne è una prova il gran numero di persone che continuano a credere nel Gruppo San Francesco e a sostenere le sue opere.

Angelica Pozza

Articolo numero 10

Urbana e la poesia

Nasce da lontano la sua passione per i versi e l'accompagna per tutta la sua esistenza

La malattia, che si presenta molto presto, la induce ad isolarsi nella sua prima giovinezza. Adolescente aveva già subito varie operazione agli occhi, purtroppo inutili, visto che perse la vista e le prime avvisaglie della “grande malattia”, così da lei definita, si facevano già sentire.

Urbana invece di partecipare alle feste di paese, dove, tra gli altri, anche i suoi coetanei, si ritrovavano per socializzare, ballare e divertirsi, si nascondeva poco distante. La distanza necessaria per poter comunque sentire la musica e il vociare festoso e spensierato dei compaesani.

Nascono qui i primi sentimenti di malinconia che la inducono a scrivere, a mettere in versi la sua tristezza e la sua incapacità di infrangere la barriera della diversità, perché come dice nelle conversazioni autobiografiche, “non avrei potuto comunque divertimi come gli altri e io provavo pudore perché, gli altri, avrebbero potuto pensare che io non avevo diritto di essere lì a spassarmela visto che ero cieca”. Atteggiamenti tipici di molti adolescenti, ma in un animo sensibile e portato all’arte come quello di Urbana, danno l’impulso per iniziare a comporre i primi versi che lei stessa definisce “leopardiani” per l’evidente richiamo all’isolamento e alla impossibilità di divertirsi assieme agli altri; purtroppo di questi versi non rimane nulla, la foga e l’insoddisfazione adolescenziale la portano a distruggerli di lì a poco.

La malattia avanza e, per alcuni anni, prende il sopravvento; nel frattempo Urbana inizia le scuole magistrali e gli studi di pianoforte che richiedono molto tempo e molti sacrifici, visto che la pratica comportava molte ore di esercizio al giorno, cosa che per una persona con i dolori di schiena che aveva lei, significava una sofferenza quotidiana.

 

In ospedale incontra la poesia

E’ nel 1949 in seguito ad uno dei molteplici ricoveri all’ospedale di Padova, che ha l’occasione di riavvicinarsi alla poesia. Era degente nello stesso reparto un tenente di Aviazione, probabilmente per curare qualche conseguenza della guerra; Urbana non ne ricorda il nome, ma ne ricorda la cortesia con la quale si proponeva di tenerle compagnia; doveva essere impressionato da questa ragazza, non ancora ventenne e non vedente, che con tanto coraggio affrontava la sua malattia. Così scopre di condividere con lei la passione per la Poesia. Urbana ricorda ch’egli portava sempre con sé la raccolta di Eugenio Montale “Ossi di Seppia” e gliene leggeva qualcuna per passare il tempo. Urbana lo menziona con gratitudine nelle conversazioni autobiografiche, sia perché le faceva trascorrere piacevolmente il tempo ma anche perché queste letture le diedero il desiderio di riavvicinarsi alla poesia, una forma di espressione che sentiva molto vicina alla propria sensibilità. Dirà più tardi che “scrivere è una liberazione, indipendentemente che qualcuno poi legga quello che hai scritto”.

 

I primi versi

In questi anni Urbana, con l’ulteriore aggravarsi della malattia, fatica a leggere ma si dedica a comporre versi. Ricorda, nelle sue poesie, l’infanzia felice nonostante la povertà della sua famiglia; la scuola, l’avvicendarsi delle stagioni e l’affacciarsi precoce della prima fase della malattia; il fratello partito per la campagna di Russia e mai più tornato. Compone per sé, per far passare il tempo, per gestire la solitudine, per esprimere i sentimenti soffocati, per liberare la sua anima. Non immagina che le sue composizioni possano diventare libri, non ha velleità di divulgarle né, tantomeno, di pubblicarle.

La natura, che ama e celebra spessissimo nei suoi poemi, attraverso i suoni le induce i ricordi più belli. L’udito si sa, per chi ha perso la vista diventa fondamentale e lei impara a riconoscere i rumori e i suoni che la circondano nella sua casa in campagna, sono cioè veicolo di ricordi e di sentimenti da celebrare. Così il canto dell’allodola le riporta la visione del grano nelle estati felici quando, bimbetta, correva nei campi; il rumore del temporale le induce il ricordo dell’arcobaleno che non mancava mai di incantarla e che dà il titolo ad uno dei suoi libri. I colori dei fiori pur nel ricordo, sono vivissimi nei suoi versi.

Incoraggiata dalla sua “grande Famiglia” Urbana, anche se tra mille difficoltà, scrive; ha un computerino braille che la aiuta molto anche quando comincia a perdere la sensibilità delle dita. Scrive dapprima “con la mente”, come ci racconta, per risparmiare energie fisiche e poi digita nella tastiera quando è sicura che i versi corrispondano a quello che vuole esprimere. Mano a mano evolvono le tematiche, la sua memoria fotografica affina la capacità di esprimersi attraverso i suoi componimenti, la bellezza del creato in particolare, ma anche la Fede diventa grande fonte di ispirazione per Lei.

Poi arriva Kekeli Neva, questa incredibile opera a cui dà vita con l’amico Padre Fabio Gilli non vedente come lei. Aiutare i bambini ciechi del Togo è una folgora­zione come la definisce lei stessa. Tutta la sua vita è dal quel momento votata a questa missione. Missionaria immobile, dal suo letto di Barbarano, mobilita persone, diffonde il messaggio e il miracolo avviene e continua tutt’ora a vent’anni dalla sua morte.

I ciechi del Togo non sono più abbandonati a sé stessi o destinati all’accattonaggio. Possono studiare, imparare il braille, aspirare a diplomarsi ai livelli più alti, avere un lavoro.

 

La poesia incontra la solidarietà: è la stagione di Kekeli Neva

Per la prima volta Urbana pensa di pubblicare le proprie poesie in un libro; lo scopo è uno solo: contribuire con la sua vendita alla raccolta fondi per Kekeli Neva. Il primo volume “Il mio canto” è acquistato da molti amici e i ritorni sono lusinghieri non solo da un punto di vista economico: la gente apprezza molto le sue poesie. Il ghiaccio è rotto segue un secondo volume, un terzo. Urbana prende coraggio e invia alcune poesie ai concorsi. Arriva quasi sempre tra le prime poesie selezionate.

La sua passione è alimentata, in questo periodo, dagli incontri letterari a cui accede grazie a questi concorsi e ai riconoscimenti che ne fanno seguito. Cerca di dedicare più tempo alla scrittura; purtroppo non riesce più a leggere e la poesia diventa l’interesse prevalente; studia per migliorare la sua tecnica di composizione poetica. Introduce la metrica, che diventa il modo di concepire i versi; la musicalità in lei innata si esprime al meglio negli endecasillabi e nei settenari che compone. E anche i riconoscimenti delle giurie specializzate non si fanno mancare, sono innumerevoli i premi assoluti che riceve negli anni novanta. Sono otto i volumi di poesie pubblicati, uno dei quali dalle Edizioni Terni come riconoscimento per il primo premio ottenuto al concorso da loro indetto nel 1995.

Le sue memorie autobiografiche sono invece raccolte nel volume uscito postumo “Acqua Marina” ricavate da una serie di interviste radiofoniche registrate da Radio Insieme di Vicenza tra il 1996 e il 1997.

Stefania Pedersini 

Articolo numero 11

Otto poesie di Urbana Carezzoli

PRESTAMI LA TUA LUCE

Prestami la tua luce.
Tutto impallidisce.
Lo spirito trema.
Cade l’ultima stella
e morendo mi chiama
lontano dal dolce
martirio del mondo.
Prestami la tua luce.
Io devo andare.

Da Il mio canto - 1990

LASCIAMI COSI’

Lasciami così,
buona, in pace,
con le mie mani
chiuse nelle tue mani;
con una gioia dentro,
che cresce, cresce
e i sensi annega,
nelle labbra schiuse
da amoroso silenzio.

Da Le sparpagliate carte - 1991

SOLA, LENTAMENTE 

Sola, lentamente, la notte
avanza. L’avverto posarsi
lieve sulle stoppie fiorite
di trifoglio. La odo frugare
curiosa tra il sommerso brusio
delle fronde. La scorgo intenta
ad ascoltare senza fretta
la passione di un usignolo.
Poi, misteriosa ed improvvisa,
dolcemente tutta mi prende.

Da Frammenti di favole vere -1993

NEL COLMO DELLA NOTTE

Nel colmo della notte mi svegliai
sorpresa dal ritmo trafelato
della pioggia, in ritardo arrivata.
Freschezza odorosa di campagna
entrò dalla finestra socchiusa
portandomi fantasie d’aprile;
e nel mattino di madreperla,
corse un brivido verde di luce,
sulle cose vogliose di vita,
e d’improvviso, fu primavera.

Da Nei giardini dell'arcobaleno - 1995

FIORI DI MANDORLO E COCCINELLE

Fiori di mandorlo e coccinelle:
palpiti nuovi di primavera,
e sul respiro della collina,
rosea la sera veleggia lenta
estinguendo ad uno ad uno, tutti
i rimpianti vicini e lontani.
Ma, ancora ardono frammenti di poesia,
attimi non goduti di dolci
fragranze; e mi soffermo tra i rovi
a raccogliere l’ultima bacca
rimasta intatta tra le ceneri
della mia continua penitenza.

Da Fiori di mandorlo e coccinelle - 1996

UN DESOLATO CADER DI FOGLIE

Un desolato cader di foglie
tra i roseti, da tempo sfioriti.
Un lamento di grilli in agonia
confuso con l’odore del mosto,
che in questa sera d’autunno,
ubriaca pure la luna, intenta
a fissare la stanca natura,
presa dall’ansia d’algide attese.
E mentre qua e là svolazza ancora
la civetta, insidiando le prede
che per sfuggire a sicura morte,
si celano in tane improvvisate,
un velo di tetra sonnolenza
si stende sugli occhi delle cose,
impedendo loro di guardare
il cielo perpetuamente desto.

Da Prima che il tempo - 1996

INQUIETE SENSAZIONI

Inquiete sensazioni
di incredibili vuoti,
si annidano nel buio
di silenziose angosce,
ignorando le stelle,
che sfavillano mute,
nella solitudine
della mente annoiata.
E il tempo, che scorrendo
graffia, indifferente,
ore di malinconia
e momenti incantati,
andandosene, coglie
pochi fiori di campo,
lungo la tortuosa via,
dal destino segnata.

Da Illusioni dolcissime, inquiete sensazioni - 1998

PER NON SMARRIRE

Per non smarrire sacri valori,
ho deciso di inciderli in fondo
all’anima per poterli sempre
benedire e, ad altri, ricordare.
Per non proibire alla mente il volo,
ho chiesto al sole di non stancare
le ali ad un anelito odoroso
d’incenso da ardere come offerta.
Per non perdere visioni amate,
col ricordo son tornata al tempo
quando, stretta all’aquilone, in alto
salivo, per riempirmi d’azzurro.

Da Per non smarrire - 2000

Articolo numero 12

«Ti ringrazio tanto Urbana, anche per gli scossoni che mi hai dato!»
 

Il ricordo di Padre Fabio Gilli, il comboniano non vedente che ha avuto un ruolo fondamentale nel suo impegno per i ciechi del Togo .
 

Urbana è una di quelle persone che abbiamo incontrato nella nostra vita e che ci hanno veramente scossi. Per me di sicuro è stato così: da quando ha saputo della mia esistenza, missionario non vedente in Africa, non mi ha lasciato vivere, nel senso che era tutto un chiedere, proporre, voler capire, voler aiutare…

Lei pensava soprattutto ai bambini e ai giovani non vedenti che voleva avessero la possibilità di istruirsi a dovere, non solo di imparare a leggere e a scrivere ma di diplomarsi, laurearsi, diventare maestri o professori. Tutte cose che a quei tempi erano ancora più che altro nelle nostre intenzioni, ma che oggi in Togo sono diventate realtà. E questo anche grazie al suo impegno e alla sua capacità di vedere lontano, ma soprattutto di non scoraggiarsi mai.

Lei era non vedente come me, ma era anche completamente paralizzata e sempre a letto; poteva muovere un braccio e con questo telefonava in continuazione per spiegare a tutti quello che si stava facendo. E non si scoraggiava mai: questa è una delle più grandi cose che mi ha insegnato.

Lei era inferma, sempre a letto, bisognosa di tutto, ma quando la si andava a trovare non era mai lei che doveva essere consolata o incoraggiata. Ricordo come fosse ieri quando le ho telefonato piangendo perché era morta la mia mamma. Lo scossone che m'ha dato! Come ha saputo consolarmi, confortarmi, fortificarmi anche in quel momento così doloroso, uno dei più dolorosi della mia vita.

Lei non si lamentava mai.

Durante le mie vacanze in Italia passavo regolarmente qualche giorno a casa sua e un giorno, al termine della Messa Eucaristica che come al solito celebravo nella sua camera, vicino al suo letto, io dissi:

"Ecco, mi trovo in questa situazione, missionario cieco, ma non farei cambio con nessuno".

E lei aggiunse: "Eppure io non farei cambio con nessuno".

Non era un modo di dire: sentivi che lo pensava veramente, con tutto il suo cuore, perché sapeva cogliere l'aspetto positivo di ogni situazione. E sapeva dare tanto bene agli altri, come lo dava a me, ascoltando e infondendo coraggio, aiutando chi aveva bisogno del suo conforto anche se a volte era tutto molto faticoso.

Quando l'ho conosciuta io era già anziana, anche se sempre attivissima, e la stanchezza si faceva sentire ma faceva di tutto per non badarci e andare avanti. La sua sofferenza però era grande, e talvolta non ce la faceva più.

Mi raccontò che un giorno aveva detto ai suoi parenti che non sentiva di ricevere nessuno e se qualcuno fosse venuto di dire che lei non stava bene. Arrivò una persona che veramente desiderava la confidenza di Urbana, che aveva bisogno di lei, ma i familiari come d'accordo non la lasciarono entrare. Quando lo seppe, e le raccontarono il dolore in quella donna che voleva incontrarla e aprire il suo cuore ma se n'era dovuta andare, ci rimase malissimo. E mi disse: «Da quel giorno feci il possibile per ricevere tutti coloro che venivano, senza mai dire a nessun ti riceverò un'altra volta, ed ebbi la forza anche se non mi sentivo bene, di accogliere tutti».

Ma lei sentiva che le forze la lasciavano e la sua preoccupazione era sempre più quella di dare continuità a ciò che aveva messo in piedi per i bambini ciechi del Togo.

L'associazione che lei ha fondato, dedicandola a San Francesco d'Assisi per il quale aveva una enorme devozione, è stata da questo punto di vista il suo capolavoro. E lo dimostra, al di là di tanti discorsi, il fatto che 20 anni dopo la sua morte sia ancora attiva e ben presente in Togo, con interventi efficaci e mirati grazie ai quali centinaia di bambini e ragazzi ciechi hanno potuto studiare in questi anni, imparando non solo a leggere e a scrivere ma consentendo ai più capaci e determinati, e ce ne sono tanti, di arrivare al diploma e alla laurea, e di diventare insegnanti, proprio come sognava Urbana tanti anni fa.

Lei è sempre presente nella nostra memoria ma, da credenti, sappiamo che ci vede, ci conosce e continua a starci vicina e di sicuro non abbandonerà le iniziative per i ciechi del Togo che tanto ha amato.

Urbana, ti posso solo dire grazie, perché sei una grande missionaria.

Padre Fabio Gilli

Articolo numero 13
 

Essi sono come me! Così nasce l'impegno di Urbana per i bambini ciechi del Togo

Un giorno ascoltando la radio ho sentito parlare di una scuola per bambini non vedenti in Togo.

E’ stata come una folgorazione: «Essi sono come me - ho pensato - provano le difficoltà che ho provato io, i miei stessi disagi di povertà, di emarginazione; più di loro, chi potrei aiutare?»

Aiutarli nell’istruzione, nella cultura, che per me è stata luce... Anche per loro, come per tutti gli altri non vedenti, la scuola deve portare luce, aprire la loro anima, aiutarli a capire meglio gli altri uomini, a valorizzare la propria personalità e la propria dignità.

Era il progetto più bello ed importante che avessi mai incontrato e mi ci sono buttata a capofitto.

La scuola era stata appena fondata da Padre Fabio Gilli, un comboniano cieco che aveva perso la vista quando era già missionario laggiù.

In seguito è tornato per alcuni anni in Italia, ha imparato a leggere e a scrivere in braille ma poi ha voluto tornare in Togo per riprendere la sua vita di prima. Qualcuno poteva pensare che un missionario cieco, in un ambiente così difficile, non serviva a niente, ma lui ha pensato proprio ai ragazzi del Togo che non vedono e, assieme ad altri, ha fondato, nel 1984, questa scuola per loro. Ha cominciato con 5-6 ragazzi, ora sono 72. La scuola funziona bene, ma ha bisogno di aiuto e per questo è nato il gruppo San Francesco. Quando Padre Fabio mi ha detto la cifra annuale necessaria ho risposto: «Va bene, ci penseremo noi». Con degli amici ci siamo autotassati, a volte arrivano offerte straordinarie, e ce l'abbiamo sempre fatta.

Urbana Carezzoli - 1998

Da Acqua Marina. Cap. 16. Kekeli Neva
 

Articolo numero 14

Una benedizione chiamata Urbana

Moïse, che è stato cieco per tre anni, è ora nostro rappresentante in Togo. Non ha mai conosciuto Urbana ma sa bene cosa ha fatto nel suo paese per chi non vede.

Tra i non vedenti del Togo Urbana Carezzoli è famosissima: sanno chi era e conoscono questo nome italiano, anche se a volte lo pronunciano malamente. In particolare tutti quelli che sono venuti in contatto con l'Istituto di Togoville, il centro Kekeli Neva fondato da Padre Fabio Gilli, conoscevano Maman Urbana, come veniva chiamata comunemente, e sapevano che pensava sempre a loro.

Nessuno dei ragazzi ha avuto la possibilità di conoscerla direttamente ma la narrazione di quelli che l'avevano incontrata in Italia, da Padre Fabio prima di tutto, alle suore direttici, al vescovo di Aneho, lasciava in tutti un segno indelebile. Sentire parlare di questa donna lontana, cieca come loro ma inferma e perennemente bloccata a letto, che instancabilmente si dava da fare per sostenere la loro scuola, lasciava tutti pieni di ammirazione, ma anche di speranza e di coraggio.

Nell'anno 2000, in occasione del Giubileo, è stato organizzato un viaggio che ha portato in Italia venti di loro e tra le grandi aspettative di questa avventura, a lungo sognata e preparata, c'era proprio l'incontro con Urbana, a Barbarano. Incontro che non c'è stato, purtroppo, perché loro sono arrivati in settembre mentre Urbana era morta due mesi prima: hanno potuto solo visitare la sua camera e cantare davanti al suo letto vuoto, e poi lasciare dei fiori al cimitero.

Come dicevo, anche se quasi nessuno l'ha mai incontrata, in tanti in Togo l'hanno conosciuta per mezzo delle sue parole scritte, chi ci vedeva almeno un po' da qualche fotografia, ma soprattutto verificando i risultati delle sue iniziative. E tra questi mi ci metto di sicuro anch'io, Moïse Tchapo, che da cieco ho conosciuto Urbana Carezzoli l'11 febbraio 2008, quasi otto anni dopo la sua morte. Perché la vita ci insegna che "l'uomo muore, le sue azioni rimangono!", e io le azioni di Urbana le ho potuto toccare davvero.

Era un periodo veramente molto difficile per me: avevo perso la vista a seguito di un'emorragia al nervo ottico ma sentivo che si poteva guarire e da mesi chiedevo aiuto per essere curato in un ospedale in Europa. Ho incontrato Padre Fabio Gilli e la mia vita è cambiata. Mi ha detto: «Figlio mio, al momento non ho mezzi per aiutarti; ma in aprile verrà in Togo qualcuno del gruppo di Urbana Carezzoli e ti presenterò a loro. Sono gentili e disponibili, come era Urbana» e mi ha parlato di lei come di una persona "nata per il Togo e per i ciechi del Togo".

Due mesi dopo, come promesso, ho incontrato i rappresentanti del gruppo di Urbana, che ho scoperto chiamarsi "Gruppo San Francesco d'Assisi": mi ha commosso la loro accoglienza, ma anche le parole e testimonianze ascoltate su Urbana dalla bocca di chi l'aveva sostituita come presidente.

Grazie al loro sostegno ho potuto finalmente iniziare un percorso di cura che, con altri generosi aiuti e un intervento chirurgico in Germania, mi ha portato negli anni successivi a una piena guarigione e al recupero totale della vista.

Così la mia vita è cambiata, in tutti i sensi. Ho iniziato a collaborare intensamente con l'associazione Gruppo San Francesco d'Assisi, di cui ora sono rappresentante in Togo, e con Padre Fabio Gilli, per sostenere le tante iniziative che essi avevano attivato per aiutare i ciechi del mio paese, assai meno fortunati di me. Io, che sapevo bene cosa voleva dire vivere senza vedere, rimanevo affascinato dalla serenità di questo prete cieco che diceva: “Dio mi ha chiuso gli occhi affinché potessi accorgermi dei non vedenti bisognosi del Togo che prima non ero stato capace di vedere”.

Negli anni successivi sono stato più volte in Italia e sempre ho incontrato la famiglia di Urbana, fratelli, cognate, nipoti. Ho provato l'emozione di visitare la stanza da cui è partita l'idea di condivisione e carità che tanto bene ha fatto ai non vedenti del mio paese. Ho immaginato come doveva essere stata questa camera quando era teatro di incontri, riunioni, assemblee, messe, sempre attorno a quel letto. E ho ringraziato Dio per aver donato ai ciechi del Togo una benedizione chiamata Urbana.

Moïse Tchapo

Nelle foto:
Moïse con Padre Fabio Gilli

Ragazze e suore di Kekeli Neva nella camera di Urbana, a Barbarano, attorno al suo letto vuoto. Settembre 2000.
L'ufficio della direttrice di Kekeli Neva, a Togoville (Togo), con la grande foto di Urbana. Agosto 2002.

Articolo numero 15

Emergenza Covid anche in Togo: piano piano si riparte e riaprono tutte le nostre scuole

Non ha avuto gravissime conseguenze a livello sanitario ma anche in Togo l'effetto Covid si è sentito: blocco totale, addirittura con coprifuoco, e chiusura di scuole e università, comprese ovviamente anche gli istituti per non vedenti che noi seguiamo. L'interruzione della didattica è stata purtroppo totale. Adesso stanno cercando di tenere qualche corso a distanza all'università ma con le attrezzature e le connessioni disponibili non è facile per nessuno, tanto meno per gli studenti non vedenti. In questi giorni il nostro rappresentante Moïse sta incontrando gli studenti di Lomé e Kara per fare il punto della situazione.
Stiamo attrezzando i nostri servizi e le scuole con dei sistemi per il lavaggio delle mani, richiesti dalle norme locali. Funzionano a pedale, per non toccare con le mani il rubinetto e il contenitore del sapone liquido, senza bisogno di acqua corrente e elettricità. Costano circa 150 euro l'uno. Ne abbiamo già preso uno e ne serviranno probabilmente altri quattro.

Nella foto: l'apparecchio per il lavaggio delle mani che in Togo deve essere presente in tutti i luoghi frequentati dalla popolazione e che stiamo fornendo alle scuole che seguiamo.


Articolo numero 16

Completati gli interventi chirurgici per la piccola Jade: ora si può essere ottimisti!

Ai primi di giugno la bambina di tre anni che stiamo assistendo è stata operata per la terza volta, come previsto, alla clinica IOTA di Bamako, in Mali.
L'avevamo presa in carico per un intervento all'occhio sinistro che rischiava di perdere per un tumore, come il destro già irrecuperabile, ma purtroppo la situazione si era presentata assai più complessa tanto da richiedere varie sedute di chemioterapia e un'operazione al cervello, non solo all'occhio. Nell'ultimo intervento è stato estratto l'occhio ormai perso  e sostituito con un bulbo artificiale.
Tutto è andato bene e si spera che, dopo un periodo di controllo, la piccola possa tornare a casa, blocchi anti Covid permettendo. Anche in Africa molte frontiere sono infatti ancora chiuse.
Un grande grazie a chi ci ha aiutato in questa impresa. In tutto abbiamo speso 13.000 euro che per una piccola associazione come la nostra rappresentano una cifra enorme e mai avremmo potuto da soli sostenere una spesa del genere. Siamo partiti puntando ad evitarle la cecità, ma in realtà era a rischio la sua vita, e siamo ben contenti di aver sostenuto questa spesa.
Il successo dell'iniziativa è stato possibile grazie a una campagna condotta su Facebook che da sola ha fruttato quasi 8.000 euro. Altri aiuti sono venuti da sostenitori abituali del gruppo e per la parte rimanente, per fortuna abbordabile, siamo intervenuti con il nostro bilancio ordinario.

Nella foto: La piccola Jade il giorno dopo l'ultima operazione

Articolo numero 17

Pronto il nuovo centro oculistico, ma a causa del virus si parte a ottobre

La consegna degli apparecchi diagnostici, già ordinati, è stata bloccata dalla pandemia, ma appena arrivano si parte veramente.
Il nuovo ambulatorio oculistico coprirà i bisogni di una vasta area attorno a Bassar, nel Togo centrale, assolutamente priva di servizi sanitari di questo tipo.
Il progetto è stato realizzato dall'associazione togolese Fontes, presieduta da Moïse Tchapo, nostro rappresentante in Togo (sua la testimonianza pag. 11) e sostenuto da finanziamenti da parte della Caritas Antoniana di Padova, dell'Agenzia per la prevenzione della cecità IAPB di Roma e da alcuni privati.
Recentemente è arrivato anche il supporto del MAC, Movimento Apostolico Ciechi, che si è impegnato a  coprire le ultime spese rimaste che riguardavano un minimo di mobili (tavoli, sedie, armadi, panche), una dotazione base di medicine per far partire la farmacia e le spese del personale medico e di supporto relativa al primo anno di funzionamento.
Adesso veramente c'è tutto.

Nella foto: L'ambulatorio oculistico ultimato. Appena arrivano gli strumenti diagnostici inizia il servizio per la popolazione.

18 - Intestazione e informazioni

Per i ciechi del Togo
Kekeli Neva
Luglio 2020 (n. 2 - 2020)

Associazione Gruppo S. Francesco d'Assisi
Per i ciechi del Togo - ONLUS
Fondata da Urbana Carezzoli
Sede legale: via Salvi, 13
36048 Barbarano Mossano (Vicenza)
Tel. e fax 0444 638033

info@grupposanfrancesco.org www.grupposanfrancesco.org
Per il 5 per mille, questo è
il nostro Codice Fiscale:
95 047 860 242

Da trent'anni la nostra associazione, fondata da Urbana Carezzoli, sostiene l'istruzione dei bambini e ragazzi ciechi in Togo

- gestiamo un Centro di supporto agli studenti ciechi, con stamperia braille, nella capitale Lomé;

- manteniamo agli studi 25 studenti in entrambe le università del Togo, a Lomé e a Kara;

- forniamo materiale didattico a sei scuole per non vedenti e aiuti finanziari a quelle più bisognose;

- aiutiamo con progetti di assistenza e adozioni a distanza vari bambini figli di genitori non vedenti;

- collaboriamo ai progetti sanitari di prevenzione della cecità promossi dall'associazione partner FONTES.

Come aiutarci:

Potete inviare le vostre donazioni:

- Presso gli uffici postali con bollettino di C.C.P. n. 18 88 33 55 intestato a “Gruppo S. Francesco d’Assisi onlus”

- Con bonifico bancario:IBAN
IT07 U076 0111 8000 0001 8883 355
Bancoposta Agenzia di Vicenza

- On line con PayPal seguendo il link diretto nell'home page del nostro sito: www.grupposanfrancesco.org